Madreselva. Intervista a Gerardo Spirito

Di recente Gerardo Spirito è tornato in libreria con un nuovo romanzo, Madreselva, edito da Moscabianca edizioni.
A pochi giorni dall’uscita abbiamo avuto modo di dialogare con l’autore per entrare nel laboratorio del romanzo e per farci raccontare come è nato.

La prima cosa che voglio chiederti è legata alla struttura del libro: Madreselva si costruisce per racconti. Come in tutte le storie in cui a emergere, più dei singoli, è una comunità, la voce narrante si fa plurale, variegata. In che modo nasce questo mondo? Come si è stratificato? Quando ne hai intravisto i primi germi e quando hai capito di averlo definito?

Tutto è iniziato dal luogo. Il luogo in Madreselva è fondamento. L’entroterra campano più nero e selvatico, la piega dello stivale, la zona appenninica, i borghi rupestri aggrappolati sul fianco di monti sperduti, o quelli ai confini con le steppe: terre di folclore e di isolamento, consacrate, ancora oggi, alla pastorizia transumante e, ancora prima, all’itineranza dinastica. C’è la Majella, la Montagna Madre, e c’è il Matese, coi suoi boschi di aceri e faggi; e ci sono i fiumi: il Lete e il Calore. Ma in Madreselva tutti questi luoghi diventano un unico luogo, un luogo archetipico che racconta il passaggio dal culto nomadico al culto radicato in territorio sacro. Qui nasce il paese senza nome di Madreselva – ossia: il paese che porta il nome del Nazareno – e nasce la montagna nera, che è il cuore di ogni vicenda narrata, simbolo di sacralità inferica, custode definitiva. E dopo il luogo è nata la lingua, e quindi il tempo, lento e incorrotto, quasi da fiaba. Altro fondamento in Madreselva riguarda la ripetizione del gesto: il taglio del ceppo, la preparazione dell’unguento, l’abbacchiatura del frutto. La mimica farlocca dei mestieranti al mercato: gli allucchi; le lamentatrici che seguono il corteo funebre e si percuotono e si graffiano e si struggono di lacrime; i pastori che praticano lo scongiuro; le guaritrici che liberano dalle febbri e dal dolore agli arti con preghiere o gesti apotropaici. Lo stesso viaggio, ricorrente in Madreselva, è gesto: i sentieri della montagna vengono percorsi continuamente, avanti e indietro, così come il tratturo, percorso continuamente, che conduce in tutti i luoghi e in nessun luogo, quasi a volere rendere il cammino – e quindi il gesto – simbolo ossessivo di un mondo che è stato e non è più.

Altra caratteristica del libro è una esplicita presenza di elementi liturgici (preghiere, riti…). Il mondo materico passa, in qualche modo, per quello spirituale e diventa unità di misura dell’angosciante condizione umana. In questa logica com’è avvenuta, durante la scrittura, la definizione dell’immaginario di riferimento? A quali fonti hai attinto?

I riferimenti sono molteplici e variegati. L’ispirazione biblica è dominante – la liturgia, la semantica, il linguaggio figurato. L’idea di affrontare e risolvere le questioni umane attraverso il racconto di uomini che sono popolo e di un popolo che vive da uomo. C’è la ritualistica: celebrazioni di origine agricola pastorale e legate ai cicli stagionali: il raccolto in estate, la semina in autunno. Il sacrificio sistemico. Analoghe sono anche le azioni simboliche: la giovane Gella che ne La povera errante accoglie i giorni della passione e della morte, o Barnaba che nell’Opera bestiale è travagliato dal male e della rassegnazione della scomparsa dei suoi figli, ombra del Giobbe patriarca che soffre ininterrottamente senza colpa. Ma l’immaginario di riferimento deve molto anche alla fiaba italiana di Rodari, Lapucci, Imbriani e Comparetti, o l’ineluttabilità tragica dei personaggi di Bonaventura Tecchi, o ancora le fascinazioni cerimoniali di De Martino e di Camporesi, ma anche Deledda, Bufalino, Tabucchi. Un’altra idea che mi affascinava era quella di scrivere un testo ibrido: un po’ romanzo corale, un po’ raccolta di novelle. Un testo dal respiro ampio. Quasi enciclopedico. Colmo di liturgia, tragedia, orrore. Il vago tentativo (arrischiato) di ritorno all’opera-mondo meridionale andata un po’ dispersa negli ultimi tempi: Lo cunto de li cunti di Basile, l’Oga Magoga di Occhiato, l’Horcynus Orca di D’Arrigo.

La più evidente fonte è la Bibbia, mescolata alla cultura pagana. Si sa quanto i testi biblici abbiano influenzato la narrativa occidentali sotto aspetti tematici e formali. Posso chiederti un focus su questo? Secondo quali letture, interpretazioni, idee ti ha influenzato?

Mi ha sempre affascinato il tentativo profetico e ambizioso della Bibbia di raccontare la nascita e il disfacimento di un popolo. Una comunità che identifica nella religione un momento iniziatico e fondante. Ecco perché il testo ha un’andatura da “libro sacro”. Le chiese, i santuari, le grotte venerande di Madreselva citano luoghi cultuali presenti nell’Antico Testamento: Sichem, Betel, Mamre. E così lo studio delle preghiere e dei medicamenti: l’ossessivo ritorno ai balsami, agli unguenti e agli impiastri richiamati nel Pentateuco, o i sogni intesi come visioni profetiche – qui devo molto ai libri dei profeti minori quali Gioele o Osea, ma anche il racconto di Ezechiele o lo stesso Daniele col suo ininterrotto appello alla fine dei giorni. Senza dubbio rientra lo studio dell’onomastica: Madreselva è costellato di nomi cristiani, teofori o gratulatori di origine biblica e contaminazione meridionale. E poi c’è lo stile: l’idea di rendere la narrazione austera e onnisciente, crudele, molto simile al narrato veterotestamentario. Anche il rapporto padre-figlio risente di tale eco: penso a Barnaba e Asa nell’Opera Bestiale, o Annibale e Nullo ne La canzone delle radici, o il rovesciamento figlio-padre di Battista e Zebedia ne Il racconto della caverna: padri e figli opposti, diversissimi, come Davide vissuto nella guerra, e suo figlio Salomone vissuto nella pace e nella saggezza. Poi mi sono lasciato influenzare dagli studi sul volgo di Carlo Ginzburg e di Piero Camporesi, o quelli antropologici di Ernesto De Martino: di quest’ultimo soprattutto l’analisi sul mondo magico contadino, il fenomeno della fascinazione napoletana, la lamentazione precristiana e mediterranea sui morti, il passaggio dalla ritualità folclorica di fattucchiere e di santoni a quella canonica guidata dalla chiesa e dal rito romano. E infine penso all’influenza che hanno avuto su Madreselva tutti quei testi che sono riusciti a raccontare la natura popolare e mitica e fiabesca del luogo: Terra vergine di D’Annunzio, Nedda di Verga, Quelli dalle labbra bianche di Masala, Apologo del giudice bandito di Atzeni.

Ho trovato poi interessante la gestione del dettato narrativo. Mentre la parte extradiegetica procede per accumulo, con frasi brevi, definendo il piano finzionale mattone per mattone, in quella diegetica, nei dialoghi, il parlato si rilassa, apre a un respiro maggiore…

Sì, il testo ha un ritmo ondoso: un lato descrittivo fitto e metaforico, un altro dialogato lento e rilassato. Il narrato in terza presente è ricco di polisindeti, terne, ripetizioni; un largo uso della paratassi e l’assenza di strutture sintattiche complesse: prevale la frase principale. Ho lavorato di sottrazione, come sovente accade, ricercando però con l’impiego dell’accumulo una narrazione da cantico o da racconto orale. Quasi a voler parodiare una partitura musicale. Poi ho lavorato sulla fitta rete di iterazioni tra le novelle, personaggi ricorrenti, tormenti ricorrenti, luoghi ricorrenti, l’intervento profetico di sogni, oracoli, apocalissi. E poi i campi semantici: il freddo, la selva, il dolore. Il confronto sistemico tra il costume pagano e il costume cristiano (trionfante) dell’antica civiltà agraria. Ho evitato l’utilizzo di un dialetto alto-meridionale; ne ero tentato in fase di stesura, per le voci di alcuni personaggi (soprattutto anziani) avevo pensato di utilizzare un registro vernacolare desueto, o comunque misto, rielaborato, ma alla fine ho deciso di accantonare l’idea e riservarmela per qualche altro lavoro futuro.

Ultima cosa che vorrei chiederti: il romanzo è pervaso da una traccia oscura che agisce per lo più sul racconto del rapporto tra bene e male. Cosa significa per il lettore aggirarsi per Madreselva?

Sì, è senz’altro così: c’è un velo oscuro che avvolge l’intero romanzo, e il rapporto tra bene e male – così come gioia e dolore – è assai fragile e sottile. Addentrarsi in Madreselva equivale a compiere un lungo errabondaggio; ritrovarsi a esplorare una terra aspra e addolorata, in un certo senso sconosciuta, e antica, e poi perdersi, in pieno inverno, all’ora rituale del tramonto, ma un tramonto che non muore mai, col sole basso e il cielo color sangue e le ombre delle cose che restano ferme e allungate. Ma forse aggirarsi per Madreselva vuol dire anche ascoltare un anziano alla luce di un fuoco di casa o di campo, un anziano un po’ matto, che ti parla della sua vita fatta di stenti e di malattie e ti racconta una parabola o un ricordo doloroso che forse nessuno ha voglia di ascoltare fino in fondo; il ricordo di un luogo e degli ultimi giorni di quel luogo: gli ultimi giorni di un padre e di un figlio e di un’orfana e di una guaritrice e di un paese e di una montagna che è madre ma anche e soprattutto matrigna crudele: il ricordo di una storia senza bontà, che non rincuora, non rinfranca, che sottrae e nega la vita. Una storia che vive di un’infatuazione struggente per il buio e per l’antico, e che vive sospesa in uno spazio al di là dal tempo e dalle ideologie contemporanee.

Intervista a cura di Antonio Esposito

Antonio Esposito nasce a Napoli nel 1989. È editor.

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