
Nella camera bianca – Simone Sciamè
Rosa timbra due minuti e trentacinque dopo di me, perché porta Valentino a scuola. Varca la soglia dell’area grigia che sono le 8.33, mentre io ho rimosso il camice, indossato la tuta, scavalcato il separatore con un piede – rivestito dal primo copriscarpe – e nel contempo indossato il secondo copriscarpe. Mi guardo allo specchio e procedo al check: tuta, guanti, copriscarpe, cuffia, mascherina, occhiali. Non ci sono zone scoperte, posso entrare.
Attraverso il corridoio, saluto Alda e Luisa che si occupano degli spray. Dico ciao donne della mia vita, mi dicono ciao bel maschione. Apro la seconda porta, quella che conduce al nostro laboratorio. Il silenzio è uno stuzzicadenti che buca i timpani, spezzato dal rumore bianco dell’impianto di aerazione che riduce la presenza di agenti contaminanti. Guardo l’orologio a parete e sono le 8.40. Rosa fa ingresso nel corridoio e devo tenerla d’occhio, farle da balia, mi ha detto il responsabile di reparto, perché non ha ancora preso le misure. Lei entra, la invito a raggiungermi con un cenno della mano. A metà strada, la vedo barcollare. Non è la prima volta, colpa della pressione. Per chi non è abituato, lo sbalzo tra l’esterno e l’interno può causare problemi. L’atmosfera è calibrata, le microparticelle sospese nell’aria ridotte a una minuscola percentuale. Rosa soffre il ricircolo forzato, la capisco.
Ripercorro il corridoio al contrario e Rosa annaspa. Quando respira, la testa le fa su e giù. Gli occhiali si appannano e si spannano a intervalli rapidi. Le guance si arrossano, inizia a sventolarsi il palmo della mano davanti al viso. L’ho sentito anch’io, la prima volta. Sta per spogliarsi ma le ordino di resistere, spogliarsi significa contaminare. Contaminare implica un danno che può essere fatale.
Vuole dirmi qualcosa ma le consiglio di tacere: «Respira lentamente e basta». Quando si calma, la invito a entrare in laboratorio. Lei si scusa. Le sorrido, percorriamo insieme il corridoio, le ragazze non la salutano. Prendo il pomello della porta e tiro verso di me. La pressione della stanza crea resistenza. Lascio la porta aperta affinché entri Rosa, poi accompagno finché la porta non si chiude senza sbattere. Altro orologio a muro, sopra l’oblò. Sono le 8.43.
La camera bianca è come l’abbiamo lasciata ieri, nessuno entra qui, ma prima di iniziare prendo il panno in microfibra e il disinfettante per superfici. Rosa mi imita. Puliamo i due tavoli di acciaio inox, accendiamo le lampade e ne puliamo la lente d’ingrandimento. Muoviamo il braccio per verificarne la mobilità. Rosa apre l’airlock e trascina due carrelli vuoti dentro il laboratorio. Le ricordo che dobbiamo sterilizzare anche quelli. Quando abbiamo terminato, il nostro sguardo torna sull’orologio. Dobbiamo aspettare i primi cinque sacchi. Mi posiziono davanti all’oblò e guardo oltre nell’attesa di vedere l’ombra di Beniamino.
Ore 8.58
Oltre questa finestra passano alcuni colleghi. Ci salutiamo con la mano. Rosa si sistema la mascherina, guarda le lancette che scorrono inesorabili.
Ore 8.59
Scatta l’ultimo minuto e vedo sbucare Beniamino, il quale mi sorride e poi mi mostra il dito medio. Ci salutiamo così, è un uomo semplice. Birra il venerdì sera, partita del Genoa la domenica. Ogni tanto, in pausa pranzo, mi racconta qualche scopata. Apre l’oblò e sento la sua voce ovattata che mi dice: «Buongiorno Sorin, com’è andato il weekend?».
Ricambio il dito medio.
Comincia a scaricare nell’oblò un sacco alla volta. Oggi ci toccano i portaprovette. Guardo Rosa, lei restituisce lo sguardo. Sbuffa, sa che tornerà a casa con bruciore agli occhi e mal di testa.
Beniamino fa cadere l’ultimo sacco e mi urla buon divertimento. Saluta Rosa con un colpo di mento. Lei sorride con gli occhi e sventola la mano. Salutando, un lembo del maglione le esce dalla tuta. Si rende conto che me ne sono accorto e lo sistema.
Ore 9.00
«Mettiamoci al lavoro» dico.
I portaprovette richiedono concentrazione. Sono tavolette di plastica con piccoli buchi che accolgono le provette. Nostro dovere è di verificare che i fori siano uniformi, che non abbiano fibre plastiche pendenti o sfilacciate, che non siano scheggiate o contaminate da agenti esterni. In media, un sacco contiene venti portaprovette. Venti portaprovette per cinque sacchi sono cento tavole. A differenza del reparto produzione, noi non riceviamo premi: non conta la velocità d’esecuzione, ma la qualità del lavoro. Possiamo andare con calma, ma è preferibile controllare almeno quindici sacchi al mattino e quindici al pomeriggio. Di queste seicento tavole, è necessario comunicare la quantità di materiale scartato. In media, finora, scartiamo intorno al 15%.
Rosa si prende una pausa in più per dissetarsi e riposare gli occhi. Al corso di formazione ci hanno detto che dovremmo staccare ogni venti minuti per almeno venti secondi. Alle 11.47, Rosa interrompe il ritmo e si sistema gli occhiali. Ha un portaprovette nella mano destra. Con la sinistra avvicina la lampada. La faccia si tuffa sopra la lente d’ingrandimento.
«Vieni a vedere.»
«Un attimo.»
Aggiungo la mia ultima tavoletta alla pila e sigillo ermeticamente il sacchetto. Lo carico sul carrello.
«Che cos’è?» mi chiede.
La sottile linea nera si allunga sopra il lato del portaprovette. Possiede un bulbo, ma è troppo sproporzionato.
«Non sembra un capello» dico.
«E neanche tessuto» aggiunge Rosa.
Beniamino bussa all’oblò e batte l’indice sul fitwatch. Poi con la mano fa segno che è ora di pranzo.
Ore 11.56
Rosa prende una pinza d’acciaio. Blocca il filamento e lo scruta ancora sotto la lente.
«È l’acheno di un tarassaco.»
«Come ci è finito il seme di un dente di leone qui dentro?»
Ore 12.00
Rosa sfila i guanti e li getta nella pattumiera. Rimuove la mascherina, la appende sulla piega del gomito. Regge l’achenio tra i polpastrelli. L’indice e il pollice si baciano, lei lo scruta. Cerco i suoi occhi, ma sono persi. Si accarezza la guancia con lo stelo. Poi schiude la bocca e appoggia il dente di leone tra le labbra.
Simone Sciamè lavora per vivere e non vive per lavorare, a meno che non si tratti di scrittura. Alcune sue cosucce sono uscite per: «Poetarum Silva», «Scomoda», «Grande Kalma», «Gelo»; editor di «Topsy Kretts»; cura una rubrica per «L’Appeso»; Erotica liquida è il libro che più si è divertito a scrivere con Federico Riccardo. Cresciuto con il rap, il cinema e la letteratura postmoderna, ce la mette tutta per dire la verità nel posto giusto al momento giusto. Spesso, fallendo.
L’illustrazione è di Luca Bruniera.