Sfrontato e impetuoso : il cinema “pop” di Xavier Dolan
Giudicare il valore di un artista sulla base del dato anagrafico è senza dubbio un grosso errore. Tuttavia il caso del giovanissimo Xavier Dolan è davvero sorprendente. Mentre alla sua età molti registi di fama mondiale non avevano ancora girato il loro primo film, oggi il cineasta del Québec, a soli 28 anni, ne ha addirittura sei all’attivo. Per di più tutti presentati nelle maggiori kermesse, dove hanno ottenuto importanti riconoscimenti.
Basti pensare al primo lungometraggio, J’ai tué ma mère, basato su una sceneggiatura semi-autobiografica scritta a 16 anni, selezionato nel 2009 per la Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes, dove ha strappato tre premi: Premio Art Cinéma, Premio SACD e Premio Regards Jeunes. Un esordio promettente, che colpisce già per la maturità stilistica, frutto anche di quella incosciente sfrontatezza tipica dei vent’anni che gli è valsa in patria (e non solo) la fama di autore narcisista e arrogante. Attingendo ispirazione costantemente da quel pozzo inesauribile che è la Nouvelle Vague, Dolan adotta forme espressive inusuali, alternando sequenze in slow motion à-la Wong Kar Wai ad altre in time lapse, inquadrature fortemente decentrate ad altre di una simmetria degna del miglior Kubrick, incursioni musicali extradiegetiche a didascalie testuali che compaiono nel bel mezzo della narrazione. E non è un caso che la sua pellicola d’esordio citi proprio un capolavoro di François Truffaut, I 400 colpi, quando il giovane Hubert, proprio come Antoine Doinel, dichiara all’insegnate che la madre è morta o quando la famiglia decide di mandare il figlio ribelle in riformatorio – con tanto di fuga finale. Citazionismo che prosegue nel secondo lavoro, Les Amours imaginaires (2010), la cui sceneggiatura riporta inevitabilmente alla memoria Jules e Jim, pietra miliare della Nouvelle Vague.
Eppure, nel corso della XII edizione del Festival del Cinema di Roma, il giovane artista canadese, scardinando tutti gli stereotipi sui registi-autori, ha confessato di non essersi mai interessato ai giganti del passato e di aver cominciato a fare cinema semplicemente perché voleva essere il protagonista di un suo film dal momento che la sua carriera di attore stentava a decollare. Sta di fatto che il talento inarrestabile di Dolan si è imposto sulla scena mondiale nel giro di pochi anni, raggiungendo probabilmente la vetta più alta con Mommy (2014), il suo quinto lungometraggio che gli è valso il premio per la regia a Cannes ex-aequo con l’ottantacinquenne Jean-Luc Godard, in una sorta di passaggio di testimone in lingua francese che conferma lo stretto legame tra le due cinematografie. Il film è una vera è propria summa del Dolan-pensiero: fotografia dominata da colori saturi ben calibrati che fa da sfondo a una storia di legami non convenzionali tra indimenticabili outsider; il tutto impreziosito da una soundtrack ricca di hits popolarissime, a conferma dell’amore del giovane autore per la cultura pop e del rifiuto per l’intellettualismo del cinema d’autore. Il regista più social in assoluto ha inoltre applicato al grande schermo l’inedito formato 1:1 dei video di Instagram, un quadrato claustrofobico che incornicia i volti (e le emozioni) dei personaggi, escludendo dal racconto il resto del mondo. Ed è qui che arriva il colpo di genio: in una sequenza già entrata di diritto nella storia del cinema, il protagonista, sulle note di Wonderwall degli Oasis, apre letteralmente con le mani l’inquadratura, allargando il formato del film in un liberatorio 16:9. Con questa scena-manifesto Dolan fa crollare ogni regola, proclamando al grido «Liberté!» un nuovo modo di intendere il cinema, già preannunciato nel folgorante Laurence Anyways (2012) ma giunto al suo naturale compimento con questa fortunata pellicola. Un cinema che, attraverso una poetica struggente e sovversiva, riesce a raccontare in maniera originale la vita di persone che lottano con tutte le forze per essere loro stesse, anche se non sempre raggiungono la tanto agognata felicità.
Dopo lo straordinario successo di Mommy nel 2016 è arrivata l’opera della maturità, È solo la fine del mondo, definita dalla critica opera “minore” e meno immediata, subendo per questo una sorte simile a quella del thriller psicologico del 2013 Tom à la ferme. Ciononostante questo lacerante mélo familiare, che si avvale per la prima volta di un cast di altissimo livello (Vincent Cassel, Léa Seydoux, Marion Cotillard e Gaspard Ulliel), conferma il sicuro talento di Dolan, il quale continua a mettersi alla prova sperimentando linee di linguaggio avanguardistiche e non smettendo mai di stupire per la spavalda padronanza del mezzo filmico. La colonna sonora, mai banale sottofondo, funge da soundtrack della memoria, in costante dialogo con le reminiscenze musicali degli spettatori (spaziando con disinvoltura da I Miss You dei Blink182 a Dragostea Din Tei degli O-Zone), a riprova della straordinaria capacità del regista di accondiscendere ad una cultura visuale delle clip video che invece di apparire kitsch risulta squisitamente genuina.
Nel 2018 uscirà nelle sale il suo primo film in lingua inglese dal titolo The Death & Life of John F. Donovan nel cui cast stellare spiccano i nomi di Susan Sarandon, Natalie Portman e la star di Game of Thrones Kit Harington. Ormai Xavier Dolan è ben più di una promessa del cinema contemporaneo ed è stucchevole ostinarsi a definirlo un enfant prodige. È un artista maturo e consapevole, che non pone limiti alle sue ambizioni e che a meno di trent’anni ha già trovato una propria cifra stilistica, una capacità di parlare al pubblico diretta e incredibilmente attuale. Insomma, Xavier Dolan è uno dei registi più interessanti dell’ultimo decennio. E potenzialmente uno dei più influenti di quelli a venire.
Valerio Ferrara