Leone, Bava, Zeffirelli: i grandi outsider del cinema italiano
Forse non ci sarebbe bisogno di chiarirlo, ma la premessa mi sembra fondamentale. Con outsider s’intende qualcuno che resta ai margini, ma che non per questo va necessariamente definito come emarginato. Certo, tra i sinonimi del termine troverete escluso, reietto, sfavorito, e chi più ne ha più ne metta, ma non è a quella accezione che si fa riferimento stavolta. Outsider è anche colui che, pur restando ai margini di una grande corrente artistica, riesce a imporsi senza seguire nessun indirizzo né collocarsi in una scuola. E quindi, che riesce a trionfare. Proprio come fece il grande Sergio.
A dir la verità, se parliamo di registi italiani, alla parola Sergio dovrebbero venircene almeno tre in mente, accomunati anche, come si dirà, da una particolare propensione, per quanto poi la mente corra veloce al più noto della triade. Leone. L’ideatore della Trilogia del dollaro. Il capostipite del western italiano. Negli anni di Pietro Germi, Luigi Comencini, Dino Risi e della commedia all’italiana propriamente detta, Sergio Leone s’inventò un genere che, di fatto, qui da noi non esisteva, lontano dalla satira di costume e dalla risata amara, ma anche dalle miserie e dalle afflizioni del non remoto neorealismo. Il colosso di Rodi, la sua prima prova da regista, è il documento d’una reminiscenza del genere epico-avventuriero con cui aveva mosso i suoi primi passi nel mondo del cinema, in qualità d’assistente o direttore della seconda unità. Il film fu, diciamolo pure, un fiasco, e alla seconda proposta di realizzare un nuovo peplum, Leone declinò l’offerta. Sapeva che quel genere lì, quello dei film in costume, metà storici, metà mitologici, era ormai arrivato al capolinea, e comunque a lui non interessava più. Fu in quel momento che si ebbe la svolta, quando Leone mise mano al leggendario Per un pugno di dollari inaugurando un nuovo tipo di cinema, che non era soltanto deserti e pistole: era uso consapevole della violenza, inquadrature che si restringono fino al primissimo piano, e interminabili silenzi più eloquenti di qualunque dialogo. Il primo western italiano fu Il terrore dell’Oklahoma (1959) del regista Mario Amendola, ma è stato Sergio Leone, cinque anni dopo, a scrivere le regole del genere cinematografico, tanto che dopo di lui gli spaghetti-western fiorirono a dismisura, e nell’arco di quindici anni si ebbe un numero vastissimo di titoli, per un numero altrettanto alto di registi. Tra i quali, appunto, gli altri due Sergio cui si accennava prima, Sollima e Corbucci, che operarono (anche) sulla scia del loro più famoso collega, con risultati tutt’altro che trascurabili. Ma, come sappiamo, anche quell’epoca finì.
In quei prolifici e miracolosi anni Sessanta faceva il suo esordio alla regia anche Mario Bava, che, dopo aver collaborato con De Sica, Monicelli e Comencini, decise anche lui di rivolgere altrove il proprio impegno. Se anche in Italia possiamo vantare un filone horror tutto nostro, lo dobbiamo certamente a lui. Nel 1960 esce La maschera del demonio, che segna l’inizio del genere: il decollo non è immediato, ma lentamente Bava farà da mentore al buon Dario Argento, e insieme daranno di che mangiare ad altri artisti del calibro di Burton e Tarantino. Bava aveva un senso dell’estetica, del colore, della luce, che non ricorda nessuno dei suoi illustri predecessori. Aveva capito che uno sguardo, una zoomata, l’atmosfera giusta possono dire più di ogni altra cosa; quasi come se fossero le ambientazioni e le inquadrature a determinare la storia, e non viceversa.
Ancora un altro esempio. Franco Zeffirelli. Verso la fine di quello stesso decennio, l’oramai ultranovantenne di Firenze si lasciò tentare dall’ambizioso progetto di riportare al cinema La bisbetica domata, in quello che probabilmente resta, ad oggi, il più famoso adattamento dell’opera di Shakespeare. Un anno dopo, fu la volta di Romeo e Giulietta. Per il resto della sua carriera, Zeffirelli avrebbe continuato a trarre ispirazione dalla cultura alta, che si trattasse dell’opera o di letteratura.
Ora, un’ultima occhiata ad alcuni dati puramente numerici ci farà tornare con un balzo al nostro presente. Se guardiamo ai film che hanno trionfato, qui in Italia, al box office anno per anno, una buona metà è composta da pellicole italiane, quasi tutte commedie. L’ultima volta che un titolo di diversa fattura è riuscito a scavalcare tutti gli altri è stata nel 1987, con L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci. Vero è che il nostro cinema deve molto, moltissimo alla commedia, ma negli anni Sessanta, quelli della grande commedia all’italiana come si è già detto e ridetto, qualcuno ha avuto il talento e il coraggio di fare diversamente. E il pubblico alla fine ha gradito Germi, Risi e Comencini, premiando però anche Sergio Leone, quando Per qualche dollaro in più risultò il film più visto della stagione 1965-66. Questo cosa vuol dire, che da quella data non si è più avuto un film drammatico di rilievo?
Niente di più falso. Però è un dato di fatto che negli ultimi decenni l’offerta si è appiattita ed è diventata sempre meno variegata. La commedia, da un lato si è standardizzata, e dall’altro l’esplorazione dei generi è diventata un rischio che nessuno vuole assumersi più. È assai difficile, oggigiorno, individuare un cineasta che si prenda la briga di osare come cinquant’anni fa facevano Leone, Bava e Zeffirelli (e non solo loro), che sperimenti tecniche nuove e riapra al cinema la strada verso generi quasi scomparsi, come il thriller, l’avventura, l’horror (un tentativo è stato fatto da Salvatores con Il ragazzo invisibile che, nonostante i risultati raggiunti, è rimasto comunque dietro rispetto al cinepanettone targato De Laurentiis e ad Aldo, Giovanni e Giacomo). Riuscite a pensare a un grosso film, a un grande nome che possa dettare leggi e tendenze come fecero i tre già citati, e prima di loro anche Fellini, Visconti, Rossellini? Certo abbiamo goduto dei fasti di Paolo Sorrentino e La grande bellezza, che però guarda più al passato che al futuro, ed è impossibile pensare che qualcun altro possa seguire il suo esempio. I Taviani e Luchetti hanno fornito delle prove eccellenti, ma hanno perso la sfida contro quelle dei colleghi e concorrenti commediografi, e dire che il cinema dei prossimi anni sarà influenzato da un Virzì o da un Tornatore più che da Genovese o da Miniero sembra un’ipotesi su cui è azzardato scommettere.
Andrea Vitale
L’ha ribloggato su Gli Anni e Le Ore.