“Vivere o morire”: per Motta è tempo di scegliere
I vent’anni sono ormai alle spalle per Francesco Motta. E l’inizio dei trenta reca con sé l’urgenza di una scelta: vivere o morire. Sono passati solo due anni da quando l’album d’esordio (“La fine dei vent’anni”, appunto) era valso al cantautore toscano il Premio Tenco come migliore opera prima, eppure molte cose sono cambiate.
Innanzitutto il passaggio da un’etichetta indipendente ad una major, la Sugar di Caterina Caselli. E, diretta conseguenza di ciò, l’incontro voluto dalla stessa casa discografica con Pacifico che ha svolto per lui un ruolo quasi maieutico, spingendolo a tirare fuori la verità e collaborando alla stesura di due testi su tre del nuovo progetto. Per di più pare essersi interrotta la collaborazione con il produttore Riccardo Sinigallia – che comunque compare come co-autore in una traccia dell’album – sostituito in cabina di mixaggio da Taketo Gohara, ingegnere del suono già al fianco di artisti come Vinicio Capossela, Marta sui Tubi e Brunori Sas.
Superare le dicotomie per diventare adulti
L’ex leader dei Criminal Jokers si è lasciato alle spalle le turbe e le incertezze di quell’adolescenza prolungata che rappresentano ormai oggi i vent’anni. “La fine dei vent’anni è un po’ come essere in ritardo, non devi sbagliare strada, non farti del male e trovare parcheggio” cantava nel 2016 per esorcizzare quell’ansia millennial che si protrae dall’ormai conclamata “crisi del quarto di secolo”.
E se Prima o poi ci passerà ha rischiato di diventare il mantra di un’intera generazione e Se continuiamo a correre suonava come un preoccupante monito (“Non è cambiato niente e niente cambierà se continuiamo a correre”), in Vivere o morire i toni paiono smorzarsi per lasciare posto ad un songwriting più conciliante, frutto di un’elaborazione lucida e consapevole degli anni passati che conduce ad una presa di posizione: abbandonare la concezione binaria della vita fatta di «sì» o «no», «ci sono» o «non ci sono», per avventurarsi in quel territorio al di là della sottile linea d’ombra dove ad attendere c’è l’età adulta e, suo naturale corollario, la capacità di apprezzare anche ciò che non è per forza o bianco o nero.
Un racconto lineare in nove brani
È proprio a cominciare dalla battaglia conclusiva de La fine dei vent’anni (Abbiamo vinto un’altra guerra), combattuta su un campo esistenziale minato dalle incertezze di un futuro precario, che s’innesta il nuovo percorso di Motta.
Un percorso introspettivo, di auto-analisi, che comincia con Ed è quasi come essere felice, brano d’apertura e ideale trait d’union tra i due lavori, lanciato come primo singolo con un videoclip che testimonia le prime fasi di registrazione allo storico Brooklin Recording Studio di New York.
Ma è la title track Vivere o morire a rappresentare il vero snodo dell’album (e forse della carriera di Motta). Qui la voce, che spesso s’inabissa fino ad assumere un timbro cavernoso, è in primissimo piano, quasi a voler rivendicare la centralità della confessione presente nel testo: “aver paura di tuffarsi, di lasciarsi andare”.
Non mancano durante il malinconico tragitto anche episodi più leggeri e sentimentali (perché per dire la verità bisogna anche «mettere il cuore sul tavolo»), come la riuscitissima hit radiofonica La nostra ultima canzone, la struggente La prima volta, dedica all’attuale compagna Carolina Crescentini, incorniciata da un’intensa sezione d’archi, o l’inaspettata E poi ci pensi un po’, accompagnata da una sezione ritmica sambata realizzata dal brasiliano Mauro Refosco – percussionista già con Red Hot Chili Peppers, Atoms For Peace e David Byrne.
La degna chiusura del cerchio, Mi parli di te, è un valzer delicato che fa da sfondo ad un intimo confronto con il padre il quale culmina con l’inevitabile ribaltamento dei ruoli che sopraggiunge implacabile con l’età (“e adesso faccio il mostro e tu il bambino”).
Oltre la retorica del cantautorato indipendente
La costante del lavoro di Motta anche in questo caso è la reiterazione musicale, più affine alla circolarità della musica tribale che alla ridondanza dell’elettronica, della quale peraltro lui stesso non fa mistero di abusare (“di cambiare accordi, no, non me ne frega niente”). Ma Vivere o morire è nel complesso un album più omogeneo rispetto a La fine dei vent’anni.
È un album schietto, di cui si percepisce nitidamente la chiarezza d’intenti. Punto di transito più che di arrivo, testimonia il passaggio a una fase della vita nella quale l’irrequietezza della gioventù deve necessariamente lasciare il posto alla sincera accettazione di sé. Anche a costo di sembrare banale. O di sentirsi dire: «Hai tradito l’indie, sei diventato pop». Perché qualunque cosa ciò voglia dire, non è certo una questione di etichette.
Valerio Ferrara