Avengers: a che punto siamo con la fine del mondo
Se i film Marvel corrispondessero alla realtà quanto e più di un documentario, e la Terra fosse costantemente in pericolo, minacciata da uno sterminatore alieno o da uno scienziato fuori di testa, nel mirino di un’armata mostruosa o di una pericolosissima testata nucleare, non ci sono dubbi che le uniche persone da chiamare sarebbero gli Avengers. Chiunque abbia visto questi film sa di cosa stiamo parlando: non sono molti coloro che possono vantarsi di sopportare il peso di un’astronave sulle proprie spalle, di sopravvivere a decine di esplosioni letali con appena un paio di graffi e di precipitare al suolo da migliaia di metri di altezza superando indenni l’atterraggio.
Eppure, chiunque conosca i cinecomic della Marvel sa pure che le cose non vanno mai esattamente così; anzi, sembra quasi che i superoeroi della casa fondata nel 1939 da Martin Goodman debbano ogni volta sottoporsi a un nuovo esame per guadagnarsi la fiducia delle autorità mondiali. Quando in Captain America: Civil War (Anthony e Joe Russo, 2016) le Nazioni Unite decidono di porre l’operato dei supereroi sotto la sorveglianza di un ente sovranazionale, in realtà è soltanto l’ultimo stadio di un processo di sfiducia cominciato anni addietro.
In The Avengers (Joss Whedon, 2012), il Consiglio di Sicurezza Mondiale bolla i Vendicatori come “pericolosi” ed esprime preoccupazione per averli lasciati a piede libero dopo la battaglia che ha rischiato di distruggere la città di New York. In un servizio del telegiornale – il cui sottopancia lancia significativamente il quesito friend or foe? – non tutti gli intervistati sono d’accordo sul fatto che gli Avengers abbiano salvato il mondo; alcuni, al contrario, li accusano di aver portato la loro guerra sul nostro pianeta.
È la stessa sorte che affligge anche gli X-Men fin dalla loro prima apparizione sul grande schermo nel 2000, quando il senatore Robert Kelly tentava affannosamente di convincere il governo della necessità di un’anagrafe dei mutanti, per obbligare costoro a uscire allo scoperto, senza curarsi del pericolo cui un simile provvedimento li avrebbe esposti. Il mondo non si fida di chi ha poteri sovrumani perché l’uomo non si fida di chi è diverso, non importa quanto migliore possa essere. Se non sei come noi, allora sei contro di noi (e se vi sembra di ravvisare in tutto questo qualche somiglianza con la piega xenofoba che la politica occidentale sta prendendo negli ultimi anni non siete i soli ad aver notato la coincidenza).
D’altronde, come potrebbe l’umanità fidarsi degli Avengers se essi per primi non si fidano gli uni degli altri? Prima che la guerra civile li schierasse sul campo di battaglia dell’aeroporto di Lipsia-Halle, Tony Stark era dell’opinione che Scarlet dovesse essere tenuta rinchiusa in una gabbia dorata per impedirle di provocare danni alla popolazione civile, e prima ancora, se non fosse stato per Loki e per il suo esercito di Chitauri piovuto da uno squarcio nel cielo, Steve Rogers, Thor e il miliardario Stark probabilmente starebbero ancora a guardarsi di sottecchi aspettando che qualcuno faccia una mossa falsa (e non citiamo la miriade di informazioni che ognuno di loro custodisce gelosamente, dalla famiglia segreta di Clint Barton alla nascita di Ultron, solo per non dilungarci). Ma se volessimo spingerci ancora più a fondo, avremmo gioco facile nell’affermare che l’origine del problema sta nel fatto che non credono neanche in sé stessi. La complicata relazione tra Natasha Romanoff e Bruce Banner comincia quando lei riceve l’incarico di convincerlo ad abbandonare l’isolamento in cui si è rifugiato, e termina con la di lui decisione di troncare sul nascere la relazione perché teme di non poter controllare il mostro che è in sé.
Ci sono voluti diversi anni e alcune battaglie sanguinolente prima che gli Avengers imparassero ad andare oltre le rispettive differenze e a riconoscersi nella più grande peculiarità che li unisce tutti: la vocazione a salvare il mondo. Vale a dire l’incapacità di girarsi dall’altra parte quando la razza umana è in pericolo e lasciare che ci pensi qualcun altro. È il motivo per cui, in fondo, sono tutti uomini soli, e chi ha scelto di condividere la propria vita con loro è costretto a farci i conti: non ci sono mogli, figli, zie o fidanzate che tengano, soprattutto se sono perennemente costretti a rimandare i propri progetti per vedere l’uomo che amano andare a rischiare la pelle (vedi alla voce Pepper Potts).
Ecco perché gli Avengers costituiscono un’unica, grande famiglia, della cui necessità diventano sempre più consapevoli, e se i rapporti tra di loro non sono sempre stati semplici, di sicuro non possono essere più complicati di quelli con le famiglie reali: Thor ha un fratello che cerca costantemente di farlo fuori, Star-Lord ha soppresso suo padre per impedirgli di cancellare l’universo e ha una relazione con Gamora che è stata adottata da Thanos dopo che questi ne ha ucciso la madre, mentre Scarlet, Quicksilver e Vedova Nera hanno tutti perso i genitori in terribili incidenti. Presto o tardi arriva sempre un parente rimpianto o indesiderato a bussare alla loro porta – non a caso nel primo film della serie il villain era incarnato da Loki, e in Avengers: Infinity War (Anthony e Joe Russo, 2018), in questi giorni nelle sale, è il già menzionato Thanos – il che corrisponde al momento in cui, loro malgrado, bisogna riconsiderare ciò che davvero si è, e in cui si dimostra quanto di quella famiglia sono riusciti effettivamente a scrollarsi di dosso.
Non è un caso che siano queste le situazioni (e sì, anche i cattivi) più interessanti, perché mettono i nostri eroi di fronte a scelte che nessuno vorrebbe mai dover fare mentre consentono a noi spettatori di vedere quanto sangue umano scorre realmente nelle loro vene. Di gran lunga meno convincenti sono gli avversari appartenenti alla razza umana, sui quali grava ancora il peso del tempo in cui videro la luce sulla carta stampata. In Age of Ultron (Joss Whedon, 2015), gli Avengers fanno la conoscenza di un trafficante d’armi chiamato Ulysses Klaue, concepito, in piena guerra fredda, da Stan Lee e Jack Kirby come un criminale figlio di un colonnello nazista. Anche Johann Schmidt, alias Teschio Rosso, incontrato nel primo capitolo della serie dedicata a Captain America, è un militare nazista al soldo di Adolf Hitler, come del resto l’HYDRA intera, l’organizzazione terroristica avversaria dello S.H.I.E.L.D., altro non è che un organismo plasmato sugli ideali tedeschi durante la Seconda guerra mondiale, e certamente non è un caso che, in The Avengers, Loki abbia scelto una città tedesca per uscire allo scoperto e dichiarare guerra all’umanità. E quando non siano nati in Germania, i cattivi del MCU provengono comunque dalle regioni più orientali dell’Europa, come il Dottor Destino, Ivan Vanko e Abominio. Sono tutti figli di quell’obsoleta ideologia americana che ha a lungo caratterizzato gli antagonisti nei film d’azione come inesorabilmente europei (ma di questo ne abbiamo già parlato qui) e che, se altrove comincia a farsi meno invadente, nei cinecomic targati Marvel tiene ancora – purtroppo – abbastanza duro.
Tutt’altro discorso per il lavoro effettuato sul grado di serietà che è andato assumendo il conflitto anno dopo anno. Dieci anni fa sembrava impossibile assistere a un film di supereroi in cui a lasciarci le penne fosse uno dei personaggi principali; il risultato è che andavamo a vedere The Avengers con la convinzione che i nostri beniamini si sarebbero fatti parecchio male, ma senza mangiarci le unghie dalla preoccupazione. Le voci di corridoio che davano per spacciato uno dei volti più noti del MCU già nei primi minuti di Infinity War hanno infuso una dose notevole di timore, eccitazione e – perché no – di curiosità negli appassionati che nel 2018 devono entrare in sala con la consapevolezza di avvicinarsi a un’esperienza del tutto nuova. I tempi in cui ci godevamo l’umorismo infantile di Peter Parker e l’ironia scorretta dei Guardiani della Galassia sono sfumati in un’era in cui non si può più soltanto ridere. È il versante su cui si registra l’evoluzione più ammirevole di questo meraviglioso mondo cinematografico, tanto per l’impronta patetica attribuita alla narrazione quanto per gli effetti sulla platea degli spettatori. La perdita di un personaggio, o nel nostro caso anche di più, di un’icona, a cui si è affezionati è sempre causa di uno shock per i fan delle epiche fantasy, ma prima o poi tocca ammettere che cavarsela sempre con i capelli scompigliati e un po’ di fuliggine sul volto non è più credibile.
Andrea Vitale