Racconto: «È bello così», mi piaceva dire – Rebecca Cicchetti
Quel Cristo, dal volto arcigno, mi guardava dalle prime luci del mattino. Le quattro figure in primo piano mi ricordavano dei volti visti di sfuggita nella Boca, in una Buenos Aires lontana da anni. Quell’uomo li sovrastava con la tragicità del volto severamente corrucciato; i capelli attaccati alla fronte, una corona di spine a puntellargli la testa.
Nella mia terra i cortei religiosi rasentavano il profano; le statue delicate della Madonna venivano caricate di ghirlande, preghiere stampate e appiccicate alla base, nastri appesi o arrotolati intorno. Ed era tutto un pregare e battersi il petto. Mia nonna era diversa da loro: si scioglieva le trecce – il fiume di capelli scorreva fino ai fianchi – e si accendeva una sigaretta, osservandoli dalla finestra.
«Guarda che cretini, Soledad».
Era…no, bella non si può dire. Belle sono le donne che tutti si voltano a guardare, come Muse mandate da Dio ad alleviare la vita. Nonna era un satanasso, un diavolo con le gambe lunghe. Chi l’amava era un masochista, destinato a vagheggiare impietosamente i suoi capelli bruni, una volta mollato. A vent’anni già lavorava come un uomo e la sera, nei bar del paesino, stappava tutte le bottiglie che trovava. C’era chi la sentiva imprecare, chi l’aveva vista avvinghiata a qualcuno.
Era un serpente maligno, con un gran dolore a indurirla. A dodici anni aiutava sua madre nella locanda che dava sulla piazza principale. Era un via vai di artisti, turisti e alcolizzati. Una sera era rimasta fino a tardi a raccattare bicchieri rotti, finché un uomo non l’aveva seguita nel magazzino. È la storia più vecchia del mondo e la più triste: mezz’ora dopo mia nonna aveva perso l’infanzia. Era scivolata via con il suo rivolo rosso e l’aveva lanciata un gradino più su, dove il dolore si fa rabbia. Per questo Maria Elena Molina, figlia dei Molina della locanda sulla piazza, non aveva mai esorcizzato il suo passato. La vita era stata poi fatica di giorno e sregolatezza di notte, nel modo più dannato possibile. Mio nonno l’aveva conosciuto dopo e anche lui era un povero masochista. È morto qualche anno fa, cornuto e ignaro di esserlo.
Il quadro che fissavo dalle prime ore della giornata era incastonato nella nicchia di quel palazzo. Tutta la notte io e gli altri ci eravamo dimenati in balli travolgenti. Barcellona nascondeva milioni di queste feste, nelle quali l’uomo esorcizzava la fatica della giornata lavorativa. A quei tempi amavo Borges, leggevo Prévert, ritraevo i volti dei miei compagni di università. Quella mattina pensavo al piccolo Carlos, e forse anche per questo, a mia nonna.
Il giorno in cui l’aveva trovato nel viottolo dietro la cattedrale era sporco e pieno di graffi. Nel tentativo di ammansire i gatti del quartiere, si era lasciato scorticare senza riuscire a domarli. Era appena suonata la campana di mezzogiorno, l’estate ardeva nei campi di spighe e i vecchi sudavano nelle verande dei bar. All’inizio Maria Elena era passata indifferente lungo il marciapiede, poi aveva intravisto il bambino, nascosto nell’ombra del vicolo, scuro come la sua pelle.
Aveva i capelli bruni fino alle spalle, appiccicati dal sudore e dal sangue. Le braccia erano rigate dai graffi, esili e bronzee. Gli zingari, si seppe più tardi, lo avevano lasciato come un indegno Mosè nella culla. Ma non c’erano pece e paglia a proteggerlo.
Gli occhi attenti delle vecchiette del quartiere, che spesso sedevano a ricamare tovaglie e racconti davanti agli usci delle loro case affacciate sul vicolo, non si erano lasciati interessare dal bambino, di tre anni o poco più, che aveva passato la notte da solo in balìa del buio.
«Che devo farci ora con questo marmocchio?».
L’aveva guardato a lungo e, alla fine, il satanasso di donna aveva ceduto ad accoglierlo. L’aveva caricato tra le sue braccia e portato fino a casa. Era una mattina d’agosto e tutti mangiavamo sotto la pergola di fiori di glicine.
Ricordo bene l’istante in cui ci voltammo a guardarlo: avevo sei anni. Mia madre, col suo sguardo aristocratico d’una nobiltà spagnola ormai decaduta – bisogna sapere che mio padre era figlio di una vecchia casata – aveva mosso i lembi della bocca in una smorfia di sdegno, alla vista del piccolo zingaro trovatello.
«Smettila, cretina», le aveva detto Maria Elena, «non lo vedi che ha bisogno?».
«Come lo chiamiamo?», sussurrò nonna per non farsi sentire dagli altri.
«Carlos, come Carlos Gardel!», dissi entusiasta.
Da piccola, nella noia sofferta nella casa dei miei genitori, ero solita ascoltare il tango per ore, trasportata dai suoni sensuali di quelle poesie melodiche. Sognavo una grande sala da ballo con l’atmosfera rossa, due ballerini al centro, mossi dal suono di Volver.
Carlos venne ripulito, i capelli vennero legati – «Non se ne parla mai e poi mai di tagliarglieli, è bello così», mi piaceva dire – e i nostri vestiti vecchi vennero passati a lui.
Correva per le stanze della casa di mia nonna con i suoi occhi di zingaro, furbi e fulminei. C’era chi pensava che la nostra famiglia avesse ormai contratto il malocchio, che un figlio di quei diavoli fosse una disgrazia; le vecchie superstiziose non avevano altro da dire se non che quella pazza di Maria Elena aveva trovato un altro da torturare.
Mia nonna lo amava come sangue del suo sangue. Il guizzo di maternità nei suoi occhi pareva dire “è come se fosse mio”.
Con il tempo lo amai anch’io, me lo trascinavo come compagno di giochi per le strade polverose del paesino. Lo esibivo come un trofeo, costringendolo a vendere braccialetti di perline nelle bancarelle dei bambini; ogni tanto, quando i miei erano in città per lavoro, lo portavo a casa e lo convincevo a ballare con me Volver.
Il giorno dei miei nove anni, i miei nonni mi regalarono un’edizione di Don Chisciotte con la copertina rossa e le lettere in oro.
Lo lessi a Carlos sotto la pergola, mentre lui fagocitava avidamente ogni parola di Cervantes e rideva come un folle di fronte ai fallimenti del cavaliere errante.
Gli anni volarono via come gli stormi di rondini, che si poggiano in primavera sulla cattedrale.
Come le madri con i loro piccoli, che si levano per prime per mostrargli i segreti del volo, così io lo portavo con me in tutti gli spazi della mia vita. Fu così che Carlos divenne uomo ancor prima di essere degno di quel nome, perché nel mio mutare in donna era stato trascinato anche lui; si intravedeva un’inaspettata maturità, puntuale come la barba che aveva già a sedici anni.
Il legame era viscerale, potrei quasi dire uterino. Eravamo figli della stessa placenta di esperienze di vita, che l’uno non aveva voluto conoscere senza l’altro.
I capelli di Carlos erano sempre lunghi e spessi, legati da una treccia forte.
Gli altri giocavano a pallone, scoprivano il sesso e le prime ubriacature; noi ci rintanavamo in un casale abbandonato e leggevamo Borges, Neruda, Márquez.
Nelle ore più calde fumavamo all’ombra di quel rudere. Poi, quando l’aria si faceva irrespirabile, si addormentava sul mio seno, come un uomo solo nella notte.
Fu sempre così, finché non giunse la Dulcinea della nostra storia a dividerci. Era alta, piena di curve e fraintendimenti, con un’aria maliziosa che a me disgustava.
Carlos, che prima di quel momento aveva conosciuto solo la geografia del mio corpo, se ne innamorò perdutamente.
Prese a scriverle lettere, a incontrarla nei luoghi abbandonati che in Andalusia trovi ovunque e io lo vidi sempre meno.
Finché una sera sentii in paese che avrebbe sposato quella puledra esuberante, infatuato com’era di quelle scintille provocanti.
Pochi giorni dopo: la mia partenza per Barcellona.
Due baci a mia nonna e neanche mezzo ai miei, decisa a dimenticare quella landa desolata che era stata la mia infanzia.
Fino ad arrivare a quella sera dei miei ventitré anni, in cui l’alcol e il tango mi avevano caricata di una nostalgia pedante, che si riversava su di me ora, dalle prime luci del mattino, nel pianto più bambino che conoscessi…
Rebecca Cicchetti