Borg McEnroe e l’infinita ricerca di equilibrio
La finale di Wimbledon disputata nel luglio del 1980 è stato l’evento che ha scritto la storia del tennis, segnando in maniera indelebile intere generazioni di tennisti (e, in un modo o nell’altro, anche la carriera dei due giovani finalisti).
Janus Metz Pedersen, regista e documentarista danese, ha deciso di portarla sul grande schermo con un riuscitissimo biopic dal titolo Borg McEnroe, presentato al Festival internazionale del film di Toronto e vincitore nel 2017 del “Premio del Pubblico BNL” alla XII edizione della Festa del Cinema di Roma.
La sfida tra fuoco e ghiaccio
La pellicola mette a confronto due giganti del tennis – da un lato il glaciale e imperturbabile Björn Borg (Sverrir Gudnason), e dall’altro l’icona punk, il «super monello» John McEnroe (Shia LaBeouf) – per raccontare quella leggendaria rivalità, in parte costruita mediaticamente, che raggiunse il suo apice proprio con l’appassionante match di Wimbledon che mise di fronte il numero 1 del mondo, già 4 volte consecutive campione del torneo a soli 24 anni, e il numero 2, talentuoso astro nascente del circuito internazionale.
Ma il film compie poi un percorso a ritroso per stanare lo svedese Björn e l’americano John, gli uomini che si celavano dietro le “rockstar” del tennis giunte sulla vetta del mondo. Si torna allora alla prima giovinezza di Borg per scoprire come sotto la cenere dell’apparente impassibilità ribollisse un vulcano di irrequietezza e rabbia che soltanto il duro allenamento psicologico del mentore Lennart Bergelin (interpretato da Stellan Skarsgård) riuscì a contenere, evitando così quelle eruzioni improvvise che avevano ormai segnato la reputazione del rivale newyorkese.
E si torna anche alla giovinezza di McEnroe, ragazzino dalle prodigiose capacità matematiche, cresciuto dai genitori con l’ossessione di essere il migliore, ossessione però coltivata senza alcun contenimento delle emozioni, vomitate sia fuori che dentro il campo da gioco con estrema naturalezza.
La metafora del tennis
Basta poco, quindi, per intuire quanto il regista sia molto più interessato al trascorso dei suoi personaggi e ai loro fantasmi interiori che alla finale in sé. Perché in fondo, se come ci viene ricordato sin dall’inizio da una citazione di Andre Agassi, “ogni match è una vita in miniatura”, è proprio da questa prospettiva che va inquadrato Borg McEnroe.
Vincere o perdere per i protagonisti non è più un atto sportivo, ma diventa qualcos’altro: uno scontro delicato e scivoloso con la vita che si può vincere soltanto cercando costantemente un equilibrio tra il restare impassibili e il dare in escandescenza.
Emblematica da questo punto di vista è la scena iniziale in cui Borg è sospeso sulla ringhiera del suo appartamento (attratto forse dal vuoto che minaccia di risucchiarlo) intento a eseguire delle flessioni. Proprio per questo viene a più riprese citata l’importanza del fattore mentale nella gestione di una partita, perché «è tutto qui» – suggerisce Bergelin picchiettando l’indice sulla tempia di Borg – ogni sfida va affrontata «un punto alla volta».
L’Io e il suo complemento
Borg McEnroe non è semplicemente un film sul tennis. Lo sport qui diventa soltanto un pretesto per raccontare due solitudini complementari, due caratteri apparentemente agli antipodi ma in realtà così simili da potersi compenetrare. L’ossessione per il controllo di Björn, che pretendeva ogni anno lo stesso albergo, la stessa stanza, la stessa macchina e curava in maniera maniacale ogni singola racchetta, e l’incontenibile esuberanza di John, pronto anche a mettersi contro tutto e tutti pur di vincere, sono in realtà due facce della stessa medaglia. Non può esserci Borg senza McEnroe, sembra suggerci Metz. E non è certo un caso che il titolo non rechi alcun segno di separazione tra i due nomi.
Valerio Ferrara