Le acque del Nord: una catarsi fra uomo e natura
L’oceano ha da sempre ispirato romanzi e racconti: il suo impeto e la sua calma abissale sono stati in grado di sedurre lettori bramosi d’avventura. Come se l’immergersi nelle sue acque – acque d’inchiostro per noi ‘impavidi’ lettori -, sballottati dai cavalloni e alla deriva, designasse la giusta metafora degli assidui travagli che connotano la vita.
Fin dall’antichità, le distese d’acqua hanno rappresentato per l’uomo qualcosa di incommensurabile: l’insondabilità cristallina degli oceani, quella trasparenza incantevole che diviene nero abissale, ha legittimato un fantasioso proliferare di credenze. La fulgida fantasia dell’uomo ha dato vita a creature marine, facendo degli oceani e dei mari il misterioso grembo di figure oscure, quali il possente Leviatano o le temibili Scilla e Cariddi.
Tuttavia, con l’avanzare del tempo, minacciati da un realismo sempre più incalzante, i mostri mitologici dovettero ridimensionarsi e assumere tratti più naturali: fu così che agli acuminati artigli si sostituirono i più realistici fanoni e le stravaganti creature lasciarono il posto a bestie concrete, una fra tutte, Moby Dick.
Le acque del Nord
Sulla scia dalla baleniera di Melville, pur dipartendosene per stile narrativo, sembra prendere avvio il romanzo di McGuire, ambientato nel 1859.
Le acque del Nord (Le acque del Nord, Ian McGuire, 2018, Torino, Einaudi, pp. 278) è un romanzo realistico dalle tinte cupe e violente: lo si potrebbe definire come un mix perfetto tra romanzo d’avventura e romanzo di formazione sui generis (un viaggio per mare che simboleggia una sperata redenzione), con una spruzzata di atmosfere noir in grado di creare suspense. Edito nel 2016 in lingua originale con il titolo “The North Water” e pubblicato in italiano per conto di Einaudi, il libro è candidato al Man Booker Prize ed è stato selezionato dalla BBC per la produzione di un’omonima serie televisiva.
La trama
Sumner è un ex-medico del reggimento militare, destituito dal proprio incarico per essersi involontariamente macchiato d’infamia. La necessità di occultare il passato e di allontanarsi il più possibile dai propri errori e dagli inganni della sorte lo spingono ad imbarcarsi sulla Volunteer, una baleniera diretta nelle acque del Nord.
Quello che si presentava come un viaggio a caccia di balene, inteso da Sumner come una sperata occasione per dimenticare se stesso tra il laudano e le pagine dell’Iliade, si rivelerà essere un’impresa infernale: omicidi, segreti e stenti sono lo sfondo di una vicenda personale, quella di un uomo che ha perso tutto ed è costretto a reagire. Sono pagine dense di realismo – va riconosciuta a McGuire un’abile cura per il dettaglio -, pagine che sanno dipingere la desolazione e la crudezza della vita per mare.
Umano, troppo umano
Quella mostrata in Le acque del nord è un’umanità negletta, allo sbaraglio, in cui la perdizione dilaga sovrana e funge da substrato fertile per meschinità grottesche e disumane, come la sodomia forzata e l’assassinio. Le lande ghiacciate sono l’habitat di questa solitudine primordiale e l’ambiente perfetto nel quale il lettore può scontare la propria catarsi, oscillando tra la provata ragione di Sumner e la barbarie che lo circondano.
Il male che McGuire inscena è un male puramente umano le cui sfaccettature si manifestano in un ampio ventaglio: dalla crudeltà spregiudicata e primitiva di cui è emblema l’oscura figura di Henry Drax, ramponiere e assassino, alla vile debolezza a cui può spingere il denaro, come nel caso del vice-capitano Cavendish o dell’astuto finanziatore Baxter.
Sopravvivere a se stessi
In un racconto delle terre estreme, in un racconto che vede degli uomini al freddo, alla fame, ridotti sempre più ai loro più elementari istinti, ci si aspetterebbe che il grande nemico sia la natura. Una natura ostile e ancora selvaggia, quel nord-oltre-il-nord che non è stato ancora preda della civilizzazione umana. Ma la natura è un mero sfondo. La brutalità è umana, il pericolo è umano.
Tutto ciò che accade è causato dall’uomo. La caccia alle balene – e qui si cela una non trascurabile differenza che ci mette in guardia dall’accostare McGuire a Melville – è ornamentale: è un pretesto per il malaffare, per il denaro e la corruzione; la descrizione dell’arpionaggio e dello smembramento dei cetacei non è il fulcro centrale del libro, bensì un episodio calato in un racconto di più ampio respiro e volto a inscenare una cruda sopravvivenza non dal nord, ma dagli uomini, le loro pulsioni e i loro intrighi. Il nemico, allora, è l’uomo. Scompare il grande tema della supremazia sulla natura selvaggia e si manifesta – con forza prorompente – l’homo homini lupus.
Uomo e natura
Eppure ci sono pochi passaggi – forse gli unici nell’intero libro – in cui il rapporto uomo-natura prende il sopravvento. Sono due momenti di solitudine che sembrano interrompere la vicenda. Un respiro, un momento di pausa e l’incontro senza filtri con la natura selvaggia.
Nel primo episodio, Sumner è fuori dalla tenda, fra i ghiacci, e vede un orso. È notte. L’orso si solleva su due zampe “come un’animale da circo e dondola per un momento, sospeso come un obelisco calcareo contro il cielo macchiato di luna” (p.187). È allora che accade:
Sumner sente un mugghio improvviso e crescente soffiare dalle scogliere fangose alle sue spalle, un gemito vasto e sinfonico, dolente, primordiale, eppure umano. Un grido – gli sembra – che va oltre le parole e il linguaggio, corale, ctonio, come le voci congiunte dai dannati. (Id)
Eccolo, il momento di unione. Un uomo e un orso, entrambi eretti, uniti da un suono che è naturale e al contempo umano. Dura appena un attimo, ma è quell’attimo di stasi che instaura (o meglio, rinsalda definitivamente) un legame fra Sumner e la figura dell’orso, fra la vita e la morte.
Un secondo passaggio è poco più avanti. Sumner è fuori dalla tenda e non vuole rientrare. Non “sopporta l’idea di riunirsi a quella compagine deprimente e disperata”. Si instaura un grado di separazione fra Sumner e gli altri. Comincia a camminare, e cammina finché non resta senza fiato, finché non ha volto e piedi intorpiditi dal freddo. Poi si volta e il vento lo investe.
Ritorna alla mente L’uomo che amava le isole di Lawrence. Quella conclusione ciclica e perfetta in cui il protagonista si gira e sente – nella neve – il proprio respiro. Solo se stesso. Da questi momenti Sumner comincia la sua regressione a uno stato pre-sociale, a un’individualità che va oltre la solitudine, che è vicina a una rassegnata disperazione. Comincia a essere solo.
Ed è lì, forse, che esce fuori la sua vera identità. È lì che – in qualche modo – può affrancarsi dal suo passato. Un’altra forma di libertà.
Claudia Corbetta
Maurizio Vicedomini