Racconto: Amilcare – Luigi Cecchi
Pubblichiamo il racconto Amilcare, contenuto in Il karma del pinolo (Luigi Cecchi, Del Vecchio, 2015, pp.89-94), per gentile concessione dell’editore.
C’era un rumore fastidioso sullo sfondo. Amilcare si tirò su dalla sedia sdraio dove stava facendo le parole crociate, cercando invano di sfuggire all’afa di quel pomeriggio estivo. Con le dita dei piedi cercò in terra le ciabatte, mentre arcuando la schiena si sporgeva per capire da dove provenisse quello stridio insopportabile.
– Tatiana! – gridò raspandosi la gola con la sua voce rauca. – Tatiana dove sei?
Probabilmente da lì, dal terrazzo, Tatiana non lo avrebbe sentito nemmeno se fosse stata in casa.
La sua badante, Tatiana, era una ragazzotta straniera sulla trentina, che probabilmente non pesava meno di centocinquanta chili.
Alta il doppio di Amilcare, era tanto robusta da riuscire a sollevare il vecchio pensionato come se fosse un sacco di piume. E lo faceva spesso. Per esempio quando Amilcare era malato, per poter rifare il letto. E accadeva di frequente, perché alla sua età qualsiasi malanno era una croce.
Tatiana si prendeva 400 euro al mese, e trascorreva con Amilcare tutte le sue mattinate, sei giorni a settimana. La domenica no, perché la ragazza andava a messa. Anche se non era cattolica, ma ortodossa, e Amilcare aveva rinunciato a capire quale fosse la differenza.
Comunque il vecchietto aveva imparato a non curarsi di lei, non le parlava quasi mai e non le lasciava cose da fare: Tatiana sembrava sapere già tutto quello che c’era da sapere su come si gestisce una casa. Sapeva dove mettere le cose, quali pulizie fare, come sistemare i vestiti, cosa comprare per pranzo, e come cucinarlo, come trattare gli scocciatori che bussavano alla porta, come cambiare le lampadine ai lampadari e così via. Forse poteva essere un po’ troppo rumorosa, ma Amilcare era mezzo sordo, e nessun vicino si era lamentato. A fine mese prendeva i suoi 400 euro, e Amilcare si era abituato a lei tanto quanto all’assenza della sua cara moglie.
Certe usanze di Tatiana gli restavano oscure, come quella cosa dell’ospitalità, o la sua riservatezza. Ma tutto sommato il vecchietto era soddisfatto di lei, era efficiente, molto volenterosa, e puntuale. Eppure adesso… quel ronzio molesto. Cosa poteva essere? Tatiana forse aveva lasciato la televisione accesa?… oppure stava ascoltando qualcosa col suo iPod e il brusio della musica a bassissimo volume, rimbombando nell’apparecchio acustico di Amilcare, finiva per creare quel fischio. Capitava spesso, con i telefoni cellulari, che interferissero con quell’amplificatore d’antiquariato. Magari Amilcare avrebbe dovuto cambiarlo, prendere un modello più tecnologico, meno vistoso. Ma quello che era nuovo lo spaventava, e non l’aveva mai sostituito.
– Tatiana?… sei ancora in casa? Tatiana!
Nessuna risposta. Amilcare era solo. Tatiana era già andata via, come si aspettava. Con la mano tremante si tolse l’apparecchio dall’orecchio destro. Il silenzio lo avvolse, il confortante e familiare silenzio naturale che lo cullava di notte quando toglieva quella scatoletta rosa da dietro l’orecchio, per aiutare il sonno a trovare la strada. Anche il rumore scomparve: quel suono stridulo, costante, trascinato… ammutolito.
Rimise l’apparecchio ed eccolo di nuovo nella sua testa, ronzava malignamente, gli rimbombava fra le tempie senza nessuna intenzione di smorzarsi.
Amilcare barcollò per un attimo quando si sollevò in piedi. Poggiò la «Settimana Enigmistica» sul tavolinetto di vetroresina bianca, accanto al fodero degli occhiali e alla ciotolina con le pillole da prendere prima di cena. Scivolando sulla suola delle pantofole raggiunse l’interno della casa.
Un odore misto di Cif e legno stagionato riempiva il soggiorno, colmo di mobili d’epoca che i giovani d’oggi si sognavano di comprare, all’Ikea.
Il suono sibilava con più acutezza adesso, nonostante Amilcare avesse tolto l’apparecchio acustico. Forse era solo il silenzio, che lo rendeva ancora più insopportabile. Appoggiandosi a un comò quasi fece cadere la bomboniera del matrimonio di suo figlio, piena di confetti ormai pietrificati, fermi su quel ripiano da vent’anni.
– Ah… forse ho capito… forse ho capito, razza di birbaccioni… – gongolò il vecchietto, tornando sui propri passi e dirigendosi verso l’ampio ingresso. Col cazzo che potevano permetterselo, i giovani, un ingresso come quello. Bello ampio, con lo specchio, l’attaccapanni, la cassapanca e il quadro di un ciliegio in fiore. Adesso erano tutti openspace. O si entrava direttamente nel salotto. E chi poteva permettersi il lusso di un ingresso. Amilcare invece ce l’aveva. Frugò nella vestaglia a scacchi e tirò fuori la chiave dello sgabuzzino.
– Mortacci vostra… – sussurrò mentre si chinava per infilare la chiave nel piccolo foro della porticina di legno. Era laccata di bianco, nascosta a due passi dall’ingresso, su un lato del corridoio. Alta appena un metro, Amilcare ci giocava con suo figlio quando lui era piccolo e si divertiva a nascondersi per casa.
Quello era il suo nascondiglio preferito, e Amilcare faceva finta di non trovarlo per un sacco di tempo, aggirandosi per casa e bofonchiando “dove diamine si sarà cacciato quel ragazzino?”… e dallo sgabuzzino lo sentiva ridere. Che bei tempi.
Non c’era dubbio, il suono fastidioso veniva da là dentro. La chiave fece un paio di giri, Amilcare aprì la porticina. Ed eccolo lì. Un telefono cellulare acceso che col suo schermo luminoso rischiarava debolmente l’angusto spazio davanti a lui.
Tatiana doveva essersi dimenticata di perquisire l’ultimo rompiscatole, prima di gettarlo dentro. Amilcare si chinò in avanti, subendo in un istante tutti i dolori che la sua malandata schiena avrebbe avuto piacere di fargli provare in un pomeriggio intero.
Raccolse il cellulare e iniziò a pigiare i tastini luminosi, azzeccando a caso il pulsante per spegnerlo. Il suono fastidioso cessò. Silenzio. Dal fondo della stanza strisciò verso la porticina il signor Romualdo. O Ronaldo? Qualcosa del genere. Coperto di polvere, denutrito, spettinato, ma aveva ancora un’aria rispettabile con la sua giacca scura e la cravatta rossa. I polsi legati e le caviglie bloccate gli impedivano di muoversi in altro modo. Aveva gli occhi gonfi di lacrime. Provò a bofonchiare qualcosa, ma con quello straccio infilato nella bocca era difficile farsi comprendere.
Amilcare provò a interpretare.
– No, non la cambio la mia cazzo di tariffa della luce! – gli rispose, secco.
Romualdo mise la testa fuori dallo sgabuzzino mugugnando più forte. Amilcare lo afferrò per i capelli e lo spinse di nuovo dentro.
– … Ah era il contratto del telefono?… O del gas?… Non importa! Non me ne frega un cazzo! Lasciami in pace, capito?
Richiuse veloce la porticina, ignorando i colpi che provenivano dall’interno.
La porticina era robusta, legno massello, mica come quelle porte di compensato che mettevano al giorno d’oggi nelle case fresche di costruzione.
Amilcare si spostò a fatica fino in cucina, gettò il cellulare nella spazzatura, e si voltò per tornare indietro. Notò un biglietto giallo attaccato sul frigo. Strizzando gli occhi lo lesse. Diceva: «Finisco domani il testimone di Geova, vado a prendere Wadim che esce prima – Tatiana».
– Eh la fretta! – borbottò Amilcare. – E poi lo vediamo tutti come finisce. Che le cose si fanno a metà, si lasciano in sospeso…
Dondolando precariamente tornò sul terrazzo. L’afa pomeridiana stava lasciando il posto alla frescura della sera. Quello era il momento migliore per godersi un po’ d’aria in veranda. Che le case di adesso non ce le hanno più le verande, e nemmeno i terrazzi spaziosi come ce l’aveva casa sua, perché non conviene più farle. Chi se le può permettere?
Il vecchietto si accasciò sulla sedia sdraio e gemette nel sentire le ossa doloranti che nel distendersi si rilassavano. Tatiana aveva lasciato il lavoro a metà. Amilcare non aveva niente da ridire su quel modo bizzarro di trattare gli ospiti, così come sulle altre usanze… tagliarli a pezzi… portarli al mare. Roba che non capiva e non avrebbe mai capito. Come la Chiesa ortodossa. Che differenza c’era? Ma certo non gli andava di sentir gemere e raspare sul legno per tutta la notte. Silenzio ci voleva. Si tolse l’apparecchio. Inforcò gli occhiali, appoggiò la testa e, scacciando via altre riflessioni amare, lesse con attenzione. 14 verticale.
Luigi Cecchi