Racconto: Santiago – Edoardo Arzenton
Una luna c’era in cielo, dio bono, luccicava che pareva il sole. Illuminava tutta la baia e la battigia e i pesci del mare, e persino il viso storto di Fernanda, a quella luce, sembrava bello.
Sedevamo sulla veranda del Cancun e si parlava di ammazzare suo marito.
«Oh, papi, un coltellaccio in panza e via» seguitava a dire Fernanda. «Lo voglio sentir strillare, il maiale».
«T’ho già detto di no» dissi io.
«Ma perché no».
«Se vuoi mandar tutto a puttane, accomodati. Ma allora io mi tiro fuori. Con le matte non voglio averci a che fare».
«E non ti scaldare, papi. Vuoi che ti ciucci l’asta?».
«Davanti a tutti, magari. Fammi un favore, sta’ un po’ bonina, vuoi?».
Bevemmo un altro po’. Non so dove guardasse Fernanda, io però rimasi a fissare il mare. Mi piaceva il mare. Sempre uguale a se stesso e sempre diverso, sempre a infrangersi sulla battigia senza che gliene fottesse un soldo. Mah.
«E poi ce l’ho già una soluzione».
«E da quando ce l’hai?».
«Da ieri sera».
«Mica me l’hai detto mentre fottevamo».
«See, see. Ora taci e ascolta. Ho trovato un tale».
«Un tale».
«Un tale che farà il lavoro al posto nostro».
«E chi è il cristiano?».
«Santiago».
«Santiago lo scemo del quartiere Espinosa?».
«Santiago lo scemo».
«Se dici così tu sei più scemo di lui».
«Dillo un’altra volta, bambina, e ti gonfio la faccia a furia di calci».
«Va bene, papi, scusa. Non dirmi queste cose, lo sai che mi fanno male».
«Scusa, bambina, ma me le tiri fuori di bocca certe volte».
«Santiago, allora…».
«Santiago».
«Perché proprio lui?».
«Nessuno sospetta degli scemi. E se qualcuno li sospetta, nessuno ha niente da ridire se ne combinano una».
«Come sei intelligente, papi».
«See, see».
«Ma sarà in grado di farlo?».
«Ce lo trovi il nocciolo dentro le pesche?».
«Sì, papi, ma cosa c’entra con l’ammazzatina e tutto il resto?».
«Lascia stare».
Bevemmo ancora. A dirla tutta non ricordavo quando avevamo iniziato. Il tavolo era pieno di bicchieri vuoti e valorosi. Forse bevevo da tutta la vita.
«E come l’hai convinto?» disse Fernanda.
«Gli ho promesso una cosa».
«Che cosa, papi?».
«Una sorpresa».
«Ma a me puoi dirlo».
«Potrei ma non mi garba. Non mi sfrantare i coglioni, ora. Sta arrivando Santiago».
Il demente si presentò sulla veranda a passo pesante, dondolando le braccia come un orango. Sul cranio portava un cappello bianchevverde e indosso gli cascava una canotta sbrindellata di un paio di taglie più grande del dovuto. Aveva appena finito di cantare in modo tremendo un’aria della Carmen che gli avevano insegnato i pescatori sulla spiaggia infarcendola di bestemmie e versi incestuosi.
«Salute, Santiago. Bevi» dissi.
Quello grugnì, sedette e tracannò un triplo cuba libre senza batter ciglio. Guardai Fernanda. Osservava il nostro ospite con aria sospettosa. Ne aveva ben donde.
«Allora, Santiago» dissi. «Bella serata».
«Devo ammazzare Fefè» disse lui.
«E come lo farai?» gli chiesi.
«Prenderò la sua testa» si portò le mani all’altezza della faccia, i palmi l’uno a guardar l’altro «e farò così».
PAF.
Il rumore dei palmi battuti fece trasalire Fernanda. Un gabbiano che bazzicava lì vicino mollò una cacata e volò via starnazzando.
«Non è mica tanto diverso dal piantargli una lama in pancia, papi» disse Fernanda.
«Lo so. È il come parli che fa sembrare stupido tutto quel che dici. Questa è la soluzione migliore in ogni caso».
«Sì, papi».
«Dov’è la cosa che mi hai promesso» disse Santiago. Era un’affermazione, non una domanda.
«A lavoro finito» promisi.
«Dov’è».
«A lavoro finito. Ora andiamo».
Un duecento passi ed eccoci davanti alla casa del vecchio Fefè, un cencio in muratura di tre piani, l’intonaco che veniva giù a tocchi e le grondaie sghembe come uccelli mosci. Dalle finestre ai piani alti, occhi bianchi ci guardavano con aria spenta. Erano haitiani dal primo all’ultimo, stipati nelle stanze che avanzavano al vecchio per raggranellare quattro spicci d’affitto. Fefè era un cravattaro, uno strozzino, e come tutti gli strozzini viveva circondato dalla merda».
«Dov’è la cosa che mi hai promesso» disse Santiago.
«A lavoro finito» dissi io.
«Non mi piace tutto questo, papi» disse Fernanda avvicinandosi a me.
La finestra della stanza del vecchio al pianterreno era buia. Santiago dondolò verso la porta, l’aprì e sparì in casa. Si udì un cigolio indistinto, poi un gemito e i rumori dei piedi nudi sulle piastrelle. Ci fu un nonsoché di lotta, ma durò poco. In capo a due sigarette, Santiago tornò fuori. La camicia era totalmente ricoperta di sangue scuro, ma il cappellino bianchevverde era intonso.
«Dov’è la cosa che mi hai promesso».
«Alla spiaggia» dissi.
Si era alzato il vento. I palmizi a bordo strada scuotevano le fronde e le nuvole avevano coperto la luna, sì che il viso di Fernanda tornò più brutto che mai.
Alla spiaggia non c’era un’anima. Solo il mare, quieto, nero.
«È tua» dissi a Santiago.
«Che, oh!» fece Fernanda.
Ma non ci fu tempo. Il mostro le fu addosso e le strappò i vestiti. Fernanda singhiozzò ma non si mise a urlare. Sapeva che sarebbe stato peggio. Quando Santiago tirò giù i pantaloni mi voltai e accesi una sigaretta che fumai mentre Santiago si fotteva a Fernanda all’impiedi contro una palma. Si sentiva dai colpi alle reni che la stava aprendo in due. Finito che fu, Fernanda si rivestì e Santiago se ne andò col suo solito dondolio.
«Figlio di puttana» disse Fernanda. «Sei peggio di Fefè. Lui non mi ha mai fatto una cosa così».
«Io non ti ho fatto proprio niente».
«Figlio di puttana».
«Sta’ zitta, vuoi?».
«Ti denuncerò, finirai in galera».
Terminai la sigaretta e la nascosi in una buca nella sabbia.
«A che ora è la corsa per San Juan?» domandai.
«Alle quattro».
Andammo alla fermata. Trascorse una silenziosa mezz’ora, poi l’autobus arrivò e la luna tornò a risplendere nel cielo.
«Avevi anche tu i debiti con Fefè» disse Fernanda. «Hai fatto i tuoi comodi questa notte».
Spensi la sigaretta ancora a metà sotto il tacco e salii il primo gradino della corriera. Mi voltai. Guardai Fernanda, in silenzio.
«Ti amo, papi» disse lei. «Non andar via».
La porta si chiuse tra noi e l’autobus sgommò sul terriccio secco alzando una nuvola di polvere nell’oscurità.
Edoardo Arzenton