Poetesse Italiane del Novecento: Sibilla Aleramo
Giovanni Cena, Vincenzo Cardarelli, Giovanni Papini, Clemente Rebora, Umberto Boccioni, Salvatore Quasimodo. Sei note personalità e tutti ricondotti a Sibilla Aleramo con la quale ebbero tutti una tormentata e fugace relazione prima di quella, ancora più tormentata, unica, nevrotica e intensissima con Dino Campana, autore dei celebri Canti orfici. Sibilla Aleramo è lo pseudonimo di Marta Felicina Faccio, da subito “Rina” per il suo Dino.
Una terribile violenza e l’attivismo femminile
Scrittrice e poetessa nata ad Alessandria nel 1876, trascorse una vita all’insegna della tragedia e della drammaticità, sin da subito mostratasi dal tentato suicidio della madre Ernesta Cottino che l’Aleramo sarà condannata a ripetere a seguito di una terribile esperienza: violentata all’età di quindici anni e, per questo, in seguito gravida, fu costretta ad un matrimonio riparatore che si sarebbe rivelato soffocante ed infelice così come saranno infelici le sue future relazioni. La bestiale e inumana violenza subita spinse la poetessa ad impegnarsi in attività a favore dell’emancipazione femminile e ciò gli varrà diverse ed importanti collaborazioni con svariate riviste. Nel settimanale «L’Italia femminile» curò una rubrica che vantò la presenza di nomi come Maria Montessori e Matilde Serao.
L’incontro con Dino Campana
Dopo una relazioni saffica con Lina Poletti arriva l’incontro con Dino Campana nel 1916 e nel giro di pochi anni, ne 1919 pubblicherò la sua prima raccolta di poesie, Il passaggio (Treves). Al Campana, al momento dell’incontro con Sibilla, fu già diagnosticata una psicosi schizofrenica preceduta da diversi ricoveri. Lei era entrata in contatto con il poeta perché sedotta dai Canti orfici e per questo si recò a Marrano per incontrarlo. Dopo la lettura dei Canti, scrisse a lui:
Chiudo il tuo libro,
snodo le mie trecce,
o cuor selvaggio,
musico cuore…
con la tua vita intera
sei nei miei canti
come un addio a me.
Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli,
meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo,
liberi singhiozzando, senza mai vederci,
né mai saperci, con notturni occhi.
Or nei tuoi canti
la tua vita intera
è come un addio a me.
Cuor selvaggio,
musico cuore,
chiudo il tuo libro,
le mie trecce snodo.
Questi sono tra i più sensuali ed espressivi versi di Sibilla. Fra i due nacque un vero e proprio amore autodistruttivo. Tanti erano i momenti passionali ma altrettanti quelli drammatici e violenti; una vera lotta in cui le tregue erano rarissime. Nulla lasciava presagire pace o serenità perché tutto sembrava essere caratterizzato da un insano masochismo tanto di lui quanto di lei nel voler portare avanti in una storia che non faceva altro che acuire le sofferenze di entrambi.
Una storia travagliata
Sibilla aveva diversi amanti, come Papini e Prezzolini , e questo inasprì il già disagiato rapporto con Campana che cadde in un vero e proprio stato di insofferenza che travolse la scrittura, la sua salute e la precaria stabilità del rapporto nocivo con l’Aleramo. La passione era direttamente proporzionale al dolore: una maledizione. Fu una condanna? Le strade dei due amanti si separano dal momento in cui lui viene internato nell’ospedale psichiatrico Villa di Castelpulci. Sibilla ritorna a frequentare i salotti mondani e letterari ma con una cicatrice sul corpo, un vuoto nel cuore e una disperazione che non troverà mai sollievo nemmeno negli anni a venire. Il fuoco dell’amore fu totalizzante e lancinante, come uno schiaffo che nonostante tale è tremendamente piacevole. Un’accorata Sibilla scrive, infine, a Dino:
“Addio, Dino, che tu possa ritrovar la poesia nella tua anima – e ricordarti qualche volta dell’anima mia.”
E ancora delle ultime e struggenti parole:
Non so che cosa mi aspetta. Forse le primavere, se torneranno per me, torneranno tutte come questa, deserte.
Ciò che resta sono quelle primavere deserte che non possono che recare sgomento, vuoto, brividi inattesi e un’incredibile tristezza ed impotenza. Due semplici parole, due coltelli che descrivono uno stato d’animo scisso e incompleto: la gioia e l’infelicità dell’assenza.
Valentina Grasso