Saving Mr. Disney: la nuova era dei remake live action
Dopo il recente arrivo nelle sale degli ultimi due remake live action dei classici animati Disney, viene spontaneo chiedersi come mai la casa di produzione stia realizzando tutte queste nuove versioni dei suoi titoli più famosi. In principio fu Alice In Wonderland, adesso Dumbo e Aladdin sono soltanto gli ultimi usciti, mentre già si attende Il re leone per il prossimo agosto.
Nel 2010 la Disney ha iniziato a riproporre i titoli più importanti del proprio catalogo d’animazione, che costituiscono l’ossatura prima del suo merchandising. Il successo è stato ottimo e la produzione di questi riadattamenti o “versioni moderne” è aumentata. Gli ultimi due film in sala hanno creato molte aspettative; Dumbo è un remake nobile negli intenti, guidato dall’occhio attento ed esperto di Tim Burton e lontano da un semplice copia e incolla, che invece ha caratterizzato film come La bella e la bestia.
Dall’elefante animato al circo burtoniano
Il vecchio Dumbo, quello del 1941, essenziale nello sviluppo della trama, viene arricchito con nuovi personaggi, nuove dinamiche, una preponderante componente umana così che la storia del buffo, piccolo elefante dalle orecchie enormi “che solo una madre può amare” diventa un canovaccio per imbastire un discorso più ampio, ma non più complesso. Queste nuove rivisitazioni hanno offerto alla Disney la possibilità di “ripulire” i suoi classici da tutto ciò che in pochi anni è diventato desueto o inaccettabile, tenendo in considerazione la nuova soglia di tolleranza che il mondo ha sviluppato soprattutto verso minoranze e atteggiamenti caratterizzanti di personaggi e famiglie rappresentate nei suoi film. L’idea è di risolvere una serie di problemi che si stanno facendo sempre più pressanti: così ad esempio se nella versione animata di Dumbo l’elefantino si ubriaca, in un cartone di oggi non vedremmo mai una cosa del genere – che infatti non accade nemmen nel film firmato da Burton. Senza contare che i corvi che lo risvegliano dopo l’incubo degli elefanti rosa sono modellati su una serie di stereotipi sugli afroamericani che oggi scatenerebbero una valanga di polemiche, e così via anche questi.
Dumbo resta un film per tutti, un racconto di crescita e riscatto che incoraggia a credere nei propri talenti, un inno alla diversità, la morale e il tono danno forma a una classica fiaba disneyana. Si lascia guardare ma senza emozione, è difficile riprovare la stretta al cuore che dava settant’anni fa. Così come è probabile che i bambini che nulla sanno della versione precedente restino affezionati al Dumbo di Tim Burton, ma per chi ha pianto e si è emozionato con il classico del ’41, le differenze si notano e non sono tutte in positivo.
Nel ’41 Dumbo fu prodotto e portato nelle sale per recuperare le perdite di Fantasia, durava appena 64 minuti e fu un successo; il Dumbo burtoniano è di 112 minuti, che si protraggono con poco brio, mentre la noia fa capolino. Era lecito aspettarsi qualcosa in più, anche in virtù della collaborazione con Ehren Kruger alla sceneggiatura (già conosciuta per Transformers e The Ring), e invece quello che Dumbo ha di buono non basta a lasciare addosso un’emozione calda o stupore sincero.
Aladdin, storia d’amore e di emancipazione
Veniamo ora ad Aladdin. Il remake live action, come il film d’animazione del ’92, porta con se delle idee ben precise, non è un semplice film d’animazione fantastico con geni e tappeti volanti; è l’espressione di un’umanità che vuole cambiare, ingabbiata nella sua vita che sia fatta d’oro o di niente; rappresenta una dialettica tra personaggi maschili e femminili dove le donne lottano per poter esprimere sé stesse assumendo anche atteggiamenti non conformi o non riconosciuti dalla massa e per questo non socialmente accettabili; il genio della lampada comunica invece le potenzialità che ognuno di noi ha, ma che non sempre sappiamo far fruttare o volgere al meglio, accecati dall’ego e dalla superbia.
Nella sua rivisitazione il film diretto da Guy Ritchie esalta questo mondo fantastico fatto di pappagalli che fanno la spia, scimmie che rubano e bizzarri geni blu che escono da una lampada. Cerca di approfondire alcuni passaggi lasciati solo come accenni nell’originale senza cambiamenti profondi. Piccole aggiunte che permettono di dare spazio a personaggi prima passati un po’ in ombra come il Sultano e, soprattutto, sua figlia Jasmine. Insomma, mantenere sì l’impalcatura originale, ma usarla per raccontare qualcosa di nuovo, evitando che sia un puro ricalco della versione animata.
È forse questa la vera magia che la Disney sta tentando di mettere a punto. Il passo successivo sarebbe riproporre l’originale in un’altra luce, reinventarsi il design, i costumi, gli ambienti e tutti gli elementi così tipicamente legati all’animazione, da mostrare in una veste ancora più esplosiva per il nuovo pubblico di piccoli appassionati, ma anche per chi ci è cresciuto con quelle immagini rimaste nella storia del cinema. Anche se a volte la prospettiva romantica prende il sopravvento, quest’Aladdin del nuovo secolo gode di momenti felicissimi, specialmente quando il protagonista e la principessa cavalcano il tappeto magico e duettano sulle note di A Whole New World (Il mondo è mio), scena clou per gli innamorati di tutto il mondo. Però, azzardare una liason tra il Genio e l’ancella di Jasmine sa di riempimento, come le canzoni e i balletti che a volte suggeriscono la sensazione statica di un musical di Broadway.
Il libro della giungla secondo Jon Favreau
Per rinfrescarci un po’ la memoria vogliamo tornare al già citato Alice in Wonderland, che nel remake propone una nuova Alice, dallo spirito femminista e combattivo, a Biancaneve che non è più una donna in attesa di un principe, all’intraprendente Belle de La bella e la bestia, o a Cenerentola, che riesce a trovare il modo di mettere la protagonista allo stesso livello dell’uomo, invece di attendere di essere tirata fuori dalla sua dimensione di sguattera. Perché tanto il nostro principe azzurro siamo noi. Un’operazione, questa del riadattamento di personaggi femminili ormai stereotipati, dagli intenti morali che adatta i classici a nuove sensibilità ridando loro nuova vita e, come tutto quello che riguarda Disney, è anche una maniera per mantenere i contenuti in cima agli standard dei “buoni insegnamenti”.
Quanto a Il libro della giungla (2016), la difficoltà che incontrava è tutta racchiusa negli anni che lo distanziano dall’originale. Se il cartone animato era dominato da una morale secondo la quale ognuno deve ricongiungersi al proprio mondo e vivere con i propri simili, il film di Jon Favreau invece afferma l’esatto contrario: si può essere diversi, mantenere le proprie individualità e vivere ugualmente insieme. La rivisitazione non si oppone al cartone che lo precede, e pur cambiando un po’ l’intreccio (e il finale) il film continua a puntare sulle stesse scene madre – per non dire le medesime melodie, che fortunatamente non diventano numeri musicali ma momenti di canto.
La giungla è quindi una casa e non più un problema per Mowgli, un luogo in cui non dover essere lupo ma poter essere uomo. A caratterizzare il bambino allevato dagli animali è infatti la sua capacità di usare l’ambiente intorno a sè e così sovvertire molte regole. Gli altri animali li chiamano “trucchi” quando in realtà non sono altro che la sua cifra caratteristica, la capacità dell’uomo di utilizzare oggetti per fare ciò che il corpo non consente, dalle armi alle trappole fino ai salvataggi. Tutto questo era assente nel cartone del 1967, mentre si trova invece nel film in quanto l’idea principale che lo anima è quella di un uomo che piega la natura alle proprie esigenze, con la possibilità di vivere insieme a chi invece la natura la segue senza discuterla.
Mary Poppins è tornata…
Ma la Disney in questi anni non si è fermata soltanto al rifacimento dei grandi classici d’animazione in chiave live action, ma ha riproposto un personaggio caro a molti, la tata più amata dai bambini e dai genitori: Mary Poppins. In realtà l’intento qui non è apertamente dichiarato, ma bastano pochi minuti per accorgersi che Il ritorno di Mary Poppins (2018, Rob Marshall) non è che un remake non annunciato dell’indimenticabile operazione del 1964, spacciato per un secondo capitolo delle avventure della tata più magica e severa del grande schermo. La storia è la stessa: genitori troppo impegnati per dar retta ai loro figli, che si sono ormai dimenticati cosa voglia dire essere bambini, ma capaci di tornare a gustare l’emozione e la spensieratezza dei buoni sentimenti.
Il film lo dichiara in maniera esplicita costringendo i personaggi a portare indietro le lancette del tempo e ad abbassarsi per attraversare porticine minuscole. Marshall non si allontana molto da quanto già visto nel capitolo precedente: i bambini entrano in confidenza con la tata non riordinando la stanza ma con bagno magico nella vasca; invece delle passeggiate negli affreschi, la sequenza animata prevede un viaggio in un vaso decorato; invece del ballo degli spazzacamini qui c’è la danza dei lucernai; invece dell’aquilone finale, è la volta dei palloncini colorati; invece del pazzerello zio Albert, l’altrettanto stravagante cugina Topsy.
… ma non è più la stessa
Il ritorno di Mary Poppins, privandosi di quella istintiva irrazionalità che caratterizza l’infanzia, non lascia niente di emozionante e di fisso nella memoria: basti pensare alla complessità delle linee melodiche delle nuove canzoni, decisamente spinose per un pubblico di bambini e lontane dal “supercalifragilistichespiralidoso”. La delusione è proprio legata a questa messa in scena. Se le rivisitazioni dei film d’animazione che la Disney sta riproponendo poggiano molto su nuove grafiche e l’aggiornamento del digitale, Mary Poppins si basa su un cinema d’altri tempi e l’originale è ancora talmente fresco e innovativo da non poter essere ulteriormente aggiornato con questo sequel. Quello che lascia a bocca asciutta è la mancanza di magia e di meraviglia, concetti chiave per Mary Poppins e per la Disney.
Avevamo davvero bisogno di un altro remake live action di un classico Disney? Forse no, forse abbiamo solo bisogno di storie e di sogni, e forse ancora nessuno sa raccontarcele bene come Disney .
È questo che facciamo noi narratori. Ristabiliamo l’ordine con l’immaginazione. Infondiamo speranza, senza sosta. (Walt Disney)
Anna Chiara Stellato