Sulla traduzione letteraria. Intervista a Marco Ottaiano
Che cosa fa realmente chi traduce letteratura? Che cosa è la traduzione letteraria? Una forma, o una poetica, per la sua capacità di riflettere continuamente su se stessa, sul proprio senso? Il traduttore letterario è un “secondo autore”?
Queste sono solo alcune delle questioni che mi sono posta quando ho deciso di scrivere un articolo che abbia come tema la traduzione. Un argomento, questo, che ormai fa parte (e spero continui a farne parte ancora per molto tempo) della mia vita, e di certo credo di poter dire che tali interrogativi sono ancora tutti aperti e che, anzi, sono tanti i possibili nuovi scenari che si possono considerare nel campo della traduzione affiancata ad altre discipline.
Occupandomi di traduzione in un campo che non è letterario, ho scelto di farmi guidare dal professore Marco Ottaiano per provare a dare risposta ai miei interrogativi. Docente presso le università “Orientale” e “Suor Orsola Benincasa”, traduttore, curatore della collana “I Selvaggi” per la Polidoro editore, fondatore e docente del corso di traduzione letteraria per l’editoria presso l’Istituto Cervantes di Napoli.
Professore, se volessimo soffermare l’attenzione proprio sulla figura del traduttore letterario, potremmo dire che esiste una differenza tra questa figura e il traduttore editoriale inteso più in larga scala? E cosa li differenzia nel lavoro?
Se consideriamo il traduttore letterario dal punto di vista del significato dell’espressione, questa sta a indicare: “colui che si occupa di un testo letterario in una lingua fonte e lo trasferisce attraverso una serie di processi in una lingua del così detto metatesto”. È sicuramente questo il suo ruolo, ma non può prescindere dall’essere anche un traduttore editoriale. Si lavora per l’editoria, si ha in comune l’obiettivo di diffondere un testo a un pubblico di lettori, ed è per questo che il traduttore deve tenere conto degli elementi di una traduzione editoriale, non può non considerare il pubblico.
Inevitabilmente questi passaggi fanno sì che il traduttore si trovi a mettere in atto una serie di trasformazioni e adeguamenti testuali che potremmo dire target oriented, ovvero orientare le proprie scelte traduttive verso esigenze che riguardano i destinatari. Purtroppo all’Università, non avendo avuto la possibilità di tenere un corso di studi che prenda in considerazione anche le esigenze editoriali in traduzione, ho messo su nel 2012 questo corso di traduzione letteraria per l’editoria che si tiene presso l’Istituto Cervantes, con l’obiettivo di avvicinare gli studenti alle regole, ai riferimenti della traduzione letteraria vera e propria ma anche alle esigenze dell’editoria.
Tradurre porta inevitabilmente a “tradire” il testo originale?
La questione di tradimento rispetto alla traduzione non mi trova d’accordo. Su questo tema sono piuttosto concorde con la posizione di uno dei nostri maggiori teorici della traduzione, Franco Buffoni, fondatore della rivista Testo a fronte, che potremmo definire un po’ il quartiere generale della traduzione in Italia. Secondo Buffoni il compito del traduttore non si può racchiudere in termini come fedeltà e tradimento al testo, quanto si deve parlare piuttosto di lealtà. Si è leali rispetto al testo quando si riesce, con i dovuti “tradimenti”, a rispettare il senso, gli intenti del testo fonte; insomma quel dire quasi la stessa cosa che sosteneva anche Umberto Eco.
Lei cura con la casa editrice Polidoro la collana “I Selvaggi” traducendo autori spagnoli e ispanoamericani. Quali sono i problemi di traduzione di questi testi?
Ad oggi mi occupo di traduzione spagnola e ispanoamericana pur essendomi formato come anglista e avendo tradotto in passato anche dall’inglese. Certamente esistono grandi differenze tra questi testi soprattutto in quelli che sono per un traduttore elementi essenziali, come: lessico, struttura sintattica, formule di cortesia e questo fa sì che vi sia un diverso approccio in traduzione, un approccio che va adattato a ogni testo.
Proprio le formule di cortesia, proverbi paradossali, fraseologie ironiche e bons mots abbondano nella piccola compagnia di continui pensieri di chi traduce. Come si aggira questo ostacolo?
Occorre un adattamento alla cultura ricevente. Il traduttore deve partire sempre dall’idea che si parte sconfitti, la traduzione è una perdita. Quello che si può fare è limitare i danni, perdere il meno possibile, contenere l’emorragia di senso che un passaggio testuale può comportare.
Il suggerimento mio è sempre quello di considerare il testo alla luce della lingua del metatesto, del testo di arrivo. Noi traduttori dobbiamo essere perfettamente capaci di muoverci dentro la nostra lingua madre, forse proprio questo lo diamo per scontato. Spesso capita che comprendiamo perfettamente ciò che vuole dire il testo fonte ma non sempre abbiamo gli strumenti per ricostruirlo nel testo di arrivo. È questo il punto, è per questo che dico sempre, anche ai miei studenti, di non formarsi solo nella lingua spagnola dalla quale si traduce quanto formarsi soprattutto sulla lingua italiana nella quale si traduce, perché la questione fondamentale per un traduttore letterario è saper scrivere in italiano, saper ricreare un testo in lingua italiana.
Possiamo dire quindi che la ricerca delle parole nel dizionario è soltanto un punto di partenza per un traduttore, ma quanta parte di questo “cercare le parole” spetta all’interpretazione di un testo?
Ecco, hai centrato un punto delicato. Le soluzioni che ti dà il lessicografo sono soluzioni limitate; sono, ovviamente, delle soluzioni di traduzione, ma la bravura del traduttore si manifesta proprio nella sua lingua madre. Deve essere capace di muoversi nella lingua di arrivo cercando di fare un lavoro di traduzione intralinguistica come la definì Jakobson: intralinguistica o riformulazione. Nel momento in cui il traduttore va a correggere la propria traduzione opera realmente una nuova formulazione linguistica del testo, e così ritorniamo al concetto che ho già espresso prima: lavorando all’interno della lingua di arrivo, non ti serve un dizionario bilingue quanto un monolingue o meglio un dizionario di sinonimi e contrari.
Come ci si rapporta oggi con i testi classici? Quanto è difficile oggi tradurre un classico che è già stato tradotto ?
Questo è un altro punto centrale della questione traduttiva oggi. Tradurre un classico, o meglio ritradurre un classico, perché per considerarlo tale deve già essere stato tradotto, vuol dire pensare a un nuovo pubblico, e ritorniamo alla questione del traduttore letterario che è inevitabilmente anche traduttore editoriale.
George Steiner in After Babel sostiene che inevitabilmente ogni generazione ritraduce ed è così. Si ritraduce perché ogni volta la traduzione deve andare verso una nuova ipotesi di circolazione di un testo e quindi al testo va data una nuova possibilità attraverso una nuova veste grafica, nuova confezione editoriale, e una nuova traduzione che “svecchi” un po’ un testo tradotto già precedentemente. Una nuova traduzione che rimpatri una memoria letteraria magari con una “nuova” lingua. La questione che nasce allora è come si comporta un traduttore con le traduzioni che l’hanno preceduto; se ne deve tener conto o no. Su questo argomento sono del parere che le traduzioni che ci hanno preceduto sono un ottimo punto di partenza.
Spesso su questo argomento ai miei alunni porto un esempio: “Se qualcuno prima di voi avesse scalato una montagna e avesse lasciato traccia della sua fatica e del suo percorso in un testo scritto, in cui vi racconta le difficoltà che ha avuto, voi andreste a vederlo questo diario di viaggio?” Io lo farei!
Ecco allora che attraverso le traduzioni precedenti, magari anche cinicamente, anche da “avvoltoi” se vogliamo, si cerca di capire cosa è già stato fatto prima per poter poi migliorare. Io l’ho fatto, mi sono messo alla prova quando ho tradotto autori classici come Cervantes e Miguel de Unamuno, che erano già stati tradotti precedentemente e l’ho fatto alla luce delle traduzioni che erano già state fatte.
La ritraduzione di un classico significa anche prendersi delle responsabilità di traduzione? Penso a un problema a lungo dibattuto come la traduzione del termine kunópis riferito a Elena nell’Odissea che cela una marca di ambito artemido-ecateo; o penso a espressioni più recenti come spooks ne “ La macchia umana” Piliph Roth
Il prestito, l’esotizzazione, è una soluzione, ma oggi è diverso tradurre un classico. Oggi esiste una coscienza traduttiva ma questo inevitabilmente porta a un minor coraggio; le traduzioni così prudenti che lasciano termini, che non traducono mi lasciano perplesso. Io accetto il prestito, ma lo accetto nella misura in cui il lettore italiano, in questo caso, lo riesce a percepire senza il bisogno di andare in nota. La traduzione è scelta, occorre sempre fare una scelta. Quando traduco mi chiedo spesso come non perdere un significato, e il problema è nella polisemia; il traduttore sa che inevitabilmente una delle scelte che farà escluderà tutte le altre, quello che si può tentare di fare è, come ho detto, di limitare i danni, scegliere magari quella parola che è più polisemica di altre quindi recuperare così più significati anche nella lingua di arrivo.
Per quanto riguarda la sfera della provocazione o del linguaggio scurrile credo che il pubblico di lettori di oggi sia molto più incline ad accettare un linguaggio esplicito e pertanto le soluzioni traduttive possono essere maggiori; se consideriamo l’italiano, questa è una lingua fortemente ricettiva in questi campi, abbiamo una serie di disfemismi nell’ambito dell’offesa o nell’ambito sessuale che permettono di creare quello che vogliamo al punto che non reputo necessario lasciare un termine nella lingua originaria.
A tal proposito mi viene in mente il caso famoso del libro di Juan Manuel de Prada, un libro di racconti che in spagnolo ha come titolo Coños (casa editrice e/o) che letteralmente corrisponde all’organo genitale femminile al plurale. In Italia questo libro invece di essere tradotto con Fiche, come avrebbe dovuto essere, è stato presentato con il titolo originario di Coños perché l’impatto visivo di un titolo con una parola scurrile, disfemica, volgare, era stato ritenuto poco elegante; nelle edizioni successive è stato poi presentato con una traduzione del titolo aggiunta in parentesi sotto la parola Coños.
Il traduttore può avere rapporti con l’autore? I traduttori della collana Polidoro come lavorano?
Il confronto con l’autore io credo sia sempre stimolante e arricchente, l’errore che il traduttore non deve mai fare è chiedere “come tradurresti questo”, ma “cosa volevi dire con questo” è una domanda da fare.
I traduttori della collana I Selvaggi della Polidoro editore sono tutti ex studenti che hanno seguito il corso all’Istituto Cervantes o studenti miei che frequentano l’Università “Orientale” di Napoli, così come gli autori che abbiamo tradotto sono tutti autori giovani, ad esempio Gabriela Ybarra autrice de Il commensale ha la stessa età della sua traduttrice, sono figlie di una stessa generazione; ma anche in altri casi come Roberto Quesada Big Banana o Alberto Salcedo Ramos L’oro e l’oscurità, hanno stabilito dei forti vincoli di amicizia con i loro traduttori italiani.
E con i classici, con autori con i quali non si può più stabilire un rapporto ?
Si traduce seguendo il testo fonte, traduci sulla bibliografia critica che l’autore ha generato e poi tieni conto anche delle traduzioni già esistenti. Vero è che per lo spagnolo quando parliamo di classici dobbiamo fare molta attenzione perché se per esempio per l’Inghilterra o la Francia, scrittori realisti della seconda metà dell’Ottocento come Dickens o Balzac sono considerati classici anche da noi, perché entrati anche nel nostro canone di lettori italiani, non possiamo dire lo stesso per i corrispettivi spagnoli; né Benito Pérez Galdós né Leopoldo Alas Clarín possono essere considerati classici perché non c’è stata una ricezione editoriale così forte e quindi tradurre oggi Galdós non è un problema di ritradurre, di tenere conto di traduzioni precedenti, quanto piuttosto cominciare a creare una nuova tradizione di traduzione
Ci sono poi autori anche famosi che hanno cambiato lingua nel corso della loro carriera. Come si rapporta a questi testi il traduttore?
Ci sono autori che utilizzano più lingue in uno stesso testo o ci sono autori che scrivono in una lingua che non è la propria lingua madre, forse l’esempio più importante tra i primi del novecento è Conrad che scrive in inglese, una lingua non sua, ma genera una scrittura singolare interessante, questo è un discorso che porta il traduttore a utilizzare un tipo di stile espressivo che possa andare nella stessa direzione della lingua dell’autore, di una lingua laboriosa, affaticata, una lingua frutto di uno studio di un’assimilazione successiva e quindi è ovvio che tradurre Conrad o uno scrittore che scrive in una lingua che non è la sua lingua madre è un compito complicato.
Anche tra gli autori spagnoli ci sono autori che scrivono in spagnolo pur non essendo spagnoli, e ci sono autori spagnoli che a un certo punto della loro vita hanno scritto in francese durante l’esilio repubblicano o durante gli anni del franchismo come Jorge Semprún o Ramón Chao il padre di Manu Chao.
La traduzione quindi è scelta come rinuncia o riconfigurazione del testo, ma esiste una traduzione che “non prende parola” anche in ciò che non dice, anche quando dovendo decidere non decide ereditando secoli di pregiudizi facendoli passare come scontati?
L’ipotesi della trasparenza del traduttore per me è da superare. Credo che la traduzione si debba vedere, si debba essere consapevoli che dietro un lavoro di un autore straniero esiste una traduzione e soprattutto una poetica della traduzione, ogni traduttore ha una sua precisa visione del mondo, della cultura, del testo, un traduttore cambia la propria percezione del testo fonte anche a seconda delle giornate, di un particolare periodo della propria vita. Io oggi se ritraducessi Cervantes o altri scrittori anche contemporanei che ho tradotto li tradurrei diversamente perché sono cambiato io, ma questo rientra nella poetica della traduzione che indubbiamente è visibile per chi la vuole vedere, chi legge per il gusto di leggere non è tenuto a sapere cosa c’è dietro però la traduzione può essere visibile. L’ipotesi della trasparenza del traduttore credo si possa superare.
Ovviamente questo è possibile nell’ambito della traduzione letteraria poiché questa comporta tempi lunghi, tempi di una gestazione di un concetto di un’espressione, nell’interpretariato è diverso, l’interpretariato è frutto di un’intuizione, un’intuizione immediata.
Io mi libererei però anche dall’idea che il traduttore sia uno scrittore mancato. È un cliché logoro, si può scegliere di fare il traduttore perché si ha un profondo amore per la letteratura, per la lingua, perché si vuole applicare le sue conoscenze su un testo letterario, ma non necessariamente perché si vuole o si deve dare sfogo alle proprie frustrazioni creative.
Esiste un’umiltà del traduttore?
Esiste nei confronti del testo fonte. Ma poi ci vuole coraggio delle proprie scelte, dedizione, impegno, tanta forza di volontà. Occorre anche saper affrontare l’isolamento. Marguerite Duras dice “lo scrittore è un selvaggio”, è allo stato primordiale. Beh, anche il traduttore un po’ lo è quando traduce perché si isola da tutto il resto restando però sempre in compagnia del testo fonte. Mentre lo scrittore è completamente solo.
Esistono le traduzioni e non la traduzione?
Non esiste una traduzione perfetta, qualsiasi testo tradotto può essere migliorato, qualsiasi anche quello fatto un’ora prima e che ritieni perfetto un’ora dopo può essere migliorato.
Possiamo dire che ormai sappiamo come si traduce, sappiamo applicare le pratiche, le tecniche, gli strumenti e le metodologie per tradurre bene; abbiamo decenni e forse secoli di teorie che ci supportano, ogni aspetto del tradurre è stato studiato, esaminato, eppure, ogni volta siamo costretti a renderci conto che la traduzione letteraria corrisponde a un’operazione, a un processo, a un meccanismo che implica inevitabilmente una trasformazione. Le traduzioni vivono in forme plurali. Non sono monocratiche né monolitiche. Abbiamo ormai chiaro che la traduzione letteraria riguarda un’esperienza un accadimento, un fenomeno, quasi totalmente soggettivi, vissuti dal traduttore di letteratura, di narrativa, o di “opere”, come soggetto assolutamente non neutro, il quale entra il gioco con tutta la sua soggettività conscia e inconscia.
“Nella ‘traduzione di opere’ il traduttore è umanamente coinvolto in maniera diretta e non mediata: egli impegna tutto il proprio essere, diviene cassa di risonanza delle passioni, delle gioie e dei drammi che vive l’autore dell’originale, e cerca nella propria esperienza un sentire tanto più possibile equivalente a quello, per tradurre quella vita con l’analogo di essa nella propria vita. Si tratta di quella lettura scrivente che non traduce segni con segni, bensì vita con vita”.
Yves Bonnefoy
Anna Chiara Stellato