Racconto: Allora? – Lutz Seiler
Oggi ricorre il trentennale dalla caduta del muro di Berlino. Per l’occasione, pubblichiamo un racconto di Lutz Seiler, tratto dalla raccolta Il peso del tempo (Del Vecchio, 2011, traduzione di Paola Del Zoppo).
Seiler, vincitore del German Book Prize, è considerato lo scrittore di riferimento per la Germania divisa e narratore di una di una terra scomparsa.
Ringraziamo l’editore per averci proposto questo testo. Il racconto si intitola: Allora?
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Quando una mattina presto K. tornò a casa e girò con la macchina nel vialetto corto e ghiacciato vide quell’uccello. Era un merlo. Era su uno dei pilastri e non si muoveva. Le sue zampine stavano piantate in un sottile strato di neve, motivo per cui sembrava non avesse affatto le zampe, come se stesse lì, nella neve, inerte, come una pallina da tennis sfilacciata, lanciata troppo lontano.
Il motore andava, adesso doveva scendere per aprire il portone. Spense la radio e si fermò ad ascoltare il piacevole battito del motore in folle; era stanco, voleva dormire, preferibilmente subito. Attraverso il lunotto anteriore guardava l’uccello e l’uccello guardava lui in macchina. Non si lasciò scomporre.
Fino a quel momento K. non aveva idea di come morisse un uccello; raramente si vedevano uccelli morti. Ogni anno ne contavano al massimo due o tre, di cadaveri nel giardino, e spesso si riconosceva con facilità che le bestie avevano perso la vita in battaglia. Ogni volta i bambini esaminavano con attenzione il luogo del ritrovamento, la posizione del corpo, o di ciò che ne rimaneva: la direzione del piumaggio e le ali coperte dall’andirivieni delle formiche. Trovavano il becco, spesso senza testa, e le zampe, spesso strappate a morsi, che a volte stavano un po’ discoste, nell’erba circostante, come se aspettassero di essere riutilizzate per andar via.
– Hanno attaccato le bestie in pieno sonno, quando la testa sta ancora sotto le ali. Così non possono fare nulla. – Col fiato corto Bruno sviluppava le sue ipotesi. Per lui tutto si svolgeva come nella battaglia di una saga, una battaglia che aveva avuto luogo a mezzanotte, – dei gridi così strani, sai, – e assicurava di essersi svegliato, ma poi, a un certo punto, si era riaddormentato. Clara commiserava l’uccello morto e voleva un funerale, con il discorso funebre e la preghiera.
– Perché non se ne stanno su, negli alberi?
– Non lo so, Clara.
– Ma lassù in cima non gli succede niente, no? – Aveva raccontato a Clara prendendola in braccio, una delle sue storie di uccelli, I gabbiani di Fahamore o L’amico degli uccelli di Wannsee; tutto gli sembrava venire da un film conosciuto, un film in cui qualcuno che gli assomigliava inventava storie consolanti.
Senza sapere nulla di ornitologia, K. spiegò che la maggior parte degli uccelli, cosa non infrequente tra gli animali, si nascondeva per morire. Lui stesso supponeva che gli uccelli, per la loro fine, avessero un posto molto bello e segreto nel folto del bosco, una radura con un pino per morenti, da cui si lasciavano cadere indisturbati, quando era il momento. – Se così non fosse, noi non dovremmo, – ai bambini faceva venire i brividi quando cominciava a parlare così, – se così non fosse, noi non dovremmo inciampare continuamente sui loro cadaveri?, ossa vuote, sparse ovunque, proprio qui, nel nostro giardino sul bordo del bosco, dove centinaia di questi uccelli canterini, ogni mattina e ogni sera mettono in scena un concerto assordante?
I bambini erano esattamente della stessa opinione. Raccolsero i resti dell’uccello in un secchio di plastica e li seppellirono sotto il faggio, un luogo che utilizzavano come cimitero. Portarono solo un paio di piume scelte e il becco nella rimessa, dove avevano un terrario con un orbettino secco, il teschio di un cinghiale e un sacco di altri resti. Alcune piume le piantarono nella sabbia che copriva il fondo del terrario, altre le misero semplicemente in piedi negli angoli. – Le piume sono i guardiani delle ossa, – mormorò Clara e, come se elargisse benedizioni, accarezzò con il palmo della sua piccola mano la foresta di piume che si era generata negli anni.
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Poiché in quel momento non passava per strada nessuno ai cui occhi poteva essere imbarazzante stare seduto nella propria macchina davanti al proprio portone, ci passò un po’ di tempo; per qualche momento appoggiò la testa sul volante. Era piacevole. Pensava a qualcosa, come un animale che non ce la fa più a badare a se stesso, e si chiese se fosse rimasto lì, magari tutta la notte, fermo ad aspettare, forse già dalla sera prima. K. ascoltò il motore, si era acceso il raffreddamento, e senza averlo davvero pianificato, spinse un po’ il pedale dell’acceleratore.
I bambini: si sarebbero accorti subito di lui. Sarebbero venuti alla porta per vedere perché non scendeva. Bruno avrebbe subito spalancato la porta per portare con lui la macchina in garage. Insieme, poi, avrebbero percorso il breve tragitto all’indietro, attraverso il giardino, fino alla strada, per poi richiudere la porta.
– In qualche modo bisogna andare avanti, caro mio.
L’aveva detto a mezza voce al lunotto anteriore; con un debole slancio di volontà scese, e si mosse velocemente verso la porta. A quel punto accadde qualcosa. Era lo sguardo fisso e pietrificato nell’occhio dell’uccello; l’assenza di timore. K. tentennò e si chiese se magari non fosse meglio tornare indietro. In fondo non era poi così necessario mettere la macchina in garage la mattina presto, tornare a casa. Il pensiero gli attraversò la mente senza un senso. La macchina poteva anche parcheggiarla per strada. Impacciato, con dei battiti asimmetrici delle ali, a scatti, con un fischio sgradevole ed eccezionalmente lungo, l’uccello si staccò e sparì tra i rami degli abeti, a destra del vialetto.
– Sempre avanti, avanti, MIO CARO, – il suo mormorio gli sembrò ridicolo, adesso. Per un momento K. si ricordò che prima spegneva il motore già sul vialetto, per arrivare silenziosamente in garage, e alzava il portone del garage, in modo che non raschiasse a terra; tornava a casa la sera, e non la mattina, e faceva tutto “in silenzio”. Anche se K. ricordava tutto quello che era successo, non gli tornava spesso in mente, ci pensava poco. Neanche allora, mentre tornava indietro sul vialetto per il garage, per chiudere la porta, e il merlo precipitò sulla piccola siepe, senza fischio, per rimanere a terra immobile. Doveva essersi staccato con poca grazia e in fretta, forse era persino scivolato, in ogni caso un sottile strato di neve bagnata cadde al suolo, e in parte gli arrivò nel colletto; K. sussultò e alzò le mani verso le testa.
Una volta che lui e Bruno erano scesi dalla macchina in garage, era scontato che K. gli chiedesse: – Vieni con me fino alla porta? – Subito Bruno scattava in avanti, K. strizzava gli occhi alla luce che filtrava tra i pini, i suoi passi scricchiolavano, appena udibili, sui sassi del vialetto, e fino alla porta era libero: per prendere fiato, per una proroga, un buco di dieci, dodici secondi in cui nessuno poteva nuocergli. Poi scivolavano lentamente, uno vicino all’altro, fino alla casa; lui metteva la mano sulle spalle di Bruno o gli accarezzava i capelli o qualcosa del genere, qualcosa che, come il resto, veniva da quel vecchio film visto e rivisto, e che stava a simboleggiare completa confidenza, e in sostanza il film faceva vedere ancora altro: la disponibilità a dare tutto, se fosse stato necessario. Insieme discesero il vialetto, K. accarezzò Bruno sui capelli, e quello che disse fu:
– Allora?
Accanto a lui il merlo si trascinò tra le sterpaglie. Tirando, con uno strano gorgoglio, provò, quasi casualmente, a mangiare le piccole bacche rosse che crescevano lì, ma non per tutte gli bastò la forza, anzi, quasi per nessuna, a essere esatti. Eppure continuò a provare, ma ogni volta si arrendeva molto in fretta, e lasciava cadere il rametto dal becco. Sembrava che avesse una fame folle, ma che non avesse tempo di saziarla, se doveva rimanergli accanto. La siepe gli strappava nel frattempo il piumaggio già malandato. Eppure riuscì a rimanere al suo fianco, per tutta la siepe, fino alla porta e di nuovo indietro, un uccello come un cane, pensò K., un animale che appartiene a qualcuno.
Due metri prima della casa la siepe terminava. K. si pulì con cura i piedi sulla grata, mise la chiave nella toppa, e nel pieno del suo indugiare, nel pieno del rumore raschiante delle suole delle sue scarpe sulla soglia, il film finì. La luce si accese, entrò in casa e si trovò solo.
Lutz Seiler