Domenico Iannacone: frammenti di identità in televisione
Il desiderio di condividere con i nostri lettori l’arte e la poesia di Domenico Iannacone mi ha finalmente portato, dopo una lunga attesa, all’incontro grazie alla collaborazione con il centro Leggimi Forte.
Nato nel 1962 a Torella del Sannio in provincia di Campobasso, ha iniziato la carriera giornalistica sulle testate regionali. Dal 2004 al 2009, approda in televisione per RaiTre, è stato uno degli inviati di punta di Ballarò e dal 2007 al 2012 ha firmato, sempre sulla Rai, il programma Presa diretta. Dal 2013 è autore e conduttore del programma d’inchiesta I dieci comandamenti, in onda su Raitre; da maggio a giugno 2019 ha condotto su Rai 3 la prima edizione della striscia quotidiana Che ci faccio qui. Per cinque volte gli è stato attribuito il Premio Ilaria Alpi, uno tra maggiori riconoscimenti legati al giornalismo d’inchiesta internazionale. Molti altri sono poi i riconoscimenti internazionali attribuitigli.
Cerca di amare le domande, che sono simili a
stanze chiuse a chiave e a libri scritti
in una lingua straniera.
( R.M. Rilke, Lettera ad un giovane poeta)
Semplicità, silenzio e tempo sembrano essere le parole chiave dei tuoi programmi, del tuo modo di fare televisione. Quanto ti è costato e quanto invece paga portare avanti la scelta di usare un tipo specifico di registro?
Direi di sì che le tre parole scelte: semplicità, silenzio e tempo rappresentano molto bene il mio modo di esprimermi, ma è stata una scelta, forse avventata, per alcuni era sicuramente avventata. Ad un certo punto mi sono accorto che la mia dimensione interna di giornalista viaggiava seguendo un indirizzo opposto rispetto a quello che la televisione stava offrendo; ho scelto di fare un passo indietro rispetto alla velocizzazione del racconto televisivo in generale, e in particolar modo delle inchieste e dei reportage.
Ho rinunciato, ho scelto di lasciare Ballarò e poi Presa Diretta, per essere completamente me stesso, rischiando, perché non avevo a disposizione un altro lavoro o un nuovo programma. Mi consideravano un mezzo matto, ma non potevo andare avanti, non ero io, non ero pienamente soddisfatto del lavoro che stavo facendo.
Oggi faccio esattamente quello che volevo fare a 18 anni. Quando scrivevo e collaboravo con riviste letterarie come “La Tartaruga”. C’era un tempo di sedimentazione della parola, in quel periodo ero fortemente legato all’essenza della parola e ancora oggi questo rapporto non è sganciato rispetto a quello che faccio adesso nel mio racconto televisivo.
In ogni mio lavoro cerco di dare una forte identità narrativa in modo che ci sia da parte del telespettatore la capacità di riconoscere il mio tratto distintivo, però questo non è da intendersi come una mera dimostrazione di un gusto estetico; cerco di trasmettere quello che sento.
Che io intervisti una persona o attraversi un luogo, la mia idea è sempre quella di fare attraversamenti immersivi, in grado di dare la verità, l’essenza del luogo. Più mi avvicino al luogo, più la verità riesce a venir fuori, il rapporto con cose e persone diventa un rapporto in grado di dare un’identità al racconto, quello che mi interessa è che ci sia profondità, è per questo che osservo, guardo, ma non giudico mai. Non mi piace dar giudizi, non mi è mai piaciuto, ho sempre preso distanze da chi tenta di essere ideologico e di giudicare.
Da I dieci comandamenti a Che ci faccio qui hai definito i tuoi incontri “inchieste morali”. Potresti chiarire questo concetto?
Le inchieste morali sono inchieste che esulano dalla struttura classica dell’inchiesta giornalistica giudiziaria o televisiva. Ciò che emerge dalla mie inchieste morali è la parte intima dell’uomo. È il racconto di chi mette a nudo la propria dimensione più intima, senza sentirsi giudicato, permettendo a chi lo ascolta di attraversare l’animo e di capire le cose più profonde, recondite, anche rispetto alle azioni che si compiono.
In Che ci faccio qui restano i temi sociali di fondo, ma prevale un viaggio immersivo, commovente, emozionante, verso una persona che si racconta. Cosa eredita da I dieci comandamenti e quanto invece si differenziano?
Che ci faccio qui è la continuazione de I dieci comandamenti, con l’obiettivo di indagare in tutte le direzioni possibili. Quello che è cambiato è il formato, racconto una storia a puntata in generale e questo fa sì che l’impianto narrativo sia strutturato in maniera diversa. Che ci faccio qui ha uno studio, c’è un cubo da cui vengono proiettate immagini e in cui mi immergo e riemergo durante il racconto, una sorta di caverna di Platone in cui vengono trasmesse le ombre.
Dal punto di vista sostanziale cambia poco, tornano personaggi che avevo già incontrato nelle edizioni de I dieci comandamenti. Un po’ come nella vita, ci sono storie che andiamo a riprendere per capire cosa è avvenuto, cosa è cambiato, se è cambiato qualcosa dopo uno spazio di tempo più o meno lungo. Ad esempio la storia della preside Eugenia Carfora, preside di un istituto professionale del Parco verde di Caivano, che ho incontrato durante I dieci comandamenti e che ho rincontrato in Che ci faccio qui.
È stata una storia che ha segnato, ci sono clip della puntata “Come figli miei” de I dieci comandamenti che fanno 4 milioni di visualizzazioni, sono diventati virali! e parlavamo di scuola, un argomento da sempre bistrattato perché “non fa ascolti”, ma la preside Carfora è la cartina tornasole di una scuola di frontiera in cui c’è bisogno di fare di più per salvare, anche un solo ragazzo.
Tra le tante storie che hai raccontato qual è quella che più ti ha segnato?
Non ti saprei rispondere precisamente, ci sono delle variabili emotive, alcuni giorni mi sento più affezionato ad alcune storie altri giorni sono più legato ad altre. È come se questa affezione derivasse dal mio stato emotivo, perché ogni puntata ha una sua densità, una sua dimensione che soltanto in una determinata condizione umana di introspezione si riesce a comprendere.
Tutti questi anni di inchieste morali ti hanno cambiato?
Dal punto di vista umano sono diventato più dolce. Mi avvicino alla gente con più dolcezza ho perso quella parte che giornalisticamente poteva essere baldanzosa, che poteva essere vista come di arroganza, quella faccia tosta del giornalista che se vuole ottenere una cosa non tiene conto di nulla. Ora mi avvicino in modo più dolce, non ho mai più usato telecamere nascoste, ora quello che uso è la pietas.
Hai parlato di Pietas, del tuo legame con la parola, in altre interviste hai raccontato del tuo “incontro” con la poesia che per te è diventata nutrimento. Credi che la poesia ti abbia trasformato?
La poesia per me è una bussola. Rispetto al mio racconto televisivo è un metronomo, è la scansione del mio ritmo è la visione delle cose, l’incipit del racconto, la narrazione, l’armonia, l’assonanza delle cose che si raccontano, belle o brutte che siano.
Amelia Rosselli aveva scritto un libretto intitolato Spazi metrici dove stabiliva che tutti avessero una propria metrica oltre quella classica che si studia, è una metrica intima una scansione che crea un nostro ritmo narrativo. Il mio è un ritmo che serve a prendere fiato, dare rotondità alle parole.
Purtroppo oggi la televisione dal punto di vista della modalità narrativa sta attuando sempre più un lavoro di velocizzazione, ma alla fine al telespettatore, sommerso da informazioni e parole, rimane ben poco su cui riflettere. La televisione ormai ha raggiunto questo compromesso di essere sempre accesa nelle case e di far finta di essere sempre vigile e presente sui fatti. Quando andiamo al cinema abbiamo un parametro per capire se una cosa ci ha davvero colpito, il giorno dopo! Se un film ci ha colpito il giorno dopo riusciamo a stabilire se ci ha creato una forte emozione. Con la televisione ormai è difficile che questo accada.
La televisione quindi oggi è una ripetizione ossessiva?
Una mimesi ossessiva. In maniera quasi cannibale utilizza un episodio che potrebbe essere replicabile in tantissime altre situazioni e racconta solo quel fatto, si accanisce lo racconta così tanto che alla fine il racconto risulta svuotato di emozioni così che per chi recepisce la testimonianza diventa privo di significato, e questo è il più grave atto che la televisione compie sulla testimonianza.
Credo che andrebbe riconsiderato l’obiettivo di alcuni programmi televisivi. Bisognerebbe ricreare una televisione di qualità, andrebbe eliminato l’indice di ascolto e acquisito l’indice di qualità e di gradimento.
Siamo ormai così fortemente connaturati all’abitudine che anche le trasmissioni televisive hanno capito questo punto debole e ci marciano. Quello che manca oggi in televisione è la diversità; mi aspetto, desidero, che la televisione ormai si distacchi da modelli standard e sperimentasse. In ogni forma di arte si sperimenta, nella pittura, nella scultura, nella letteratura, nel cinema si sperimenta. La televisione invece è rimasta indietro e se l’offerta è sempre la stessa il pubblico si adegua.
Quello che ultimamente emerge in alcuni programmi televisivi è una televisione che racconta se stessa, piegata su se stessa. Si percepisce tra i telespettatori e in televisione sempre questo stato di perenne nostalgia, abbiamo il rammarico di aver vissuto altre epoche in cui c’erano cose migliori e guardiamo con una certa struggente nostalgia quei periodi, è come se guardassimo sempre indietro. Ed è terribile.
C’è una fascia di telespettatori che si sente orfana di Canzonissima, Raffaella Carrà e vive questa forte nostalgia rispetto ai programmi che hanno caratterizzato la loro vita. Probabilmente rispetto all’impreparazione di oggi, questo sentimento nostalgico può essere anche giustificato, infondo ad oggi, se dovessimo parlare di intrattenimento puro in televisione quale esempio degno di ricordo verrebbe da citare se non Arbore, il quale dettò una sorta di rottura rispetto al modello tradizionale, fu destabilizzante, quasi dadaista. Però dopo Arbore non ci sono stati grandi esperimenti, c’è stata una forma di regressione, una censura, un’auto censura.
Credi che la televisione possa ancora incidere sul sociale ?
La televisione ha possibilità, ma soprattutto ha un obbligo di provarci, ritengo che non debba mai esserci una forma di resa a priori in generale. La cosa più bella che mi sta accadendo ormai da qualche anno dopo 7 edizioni di Che ci faccio qui è che un certo tipo di pubblico mi segue e vengo riconosciuto per il mio lavoro. Ora, ad esempio, sto lavorando a 4 seconde serate da 50 minuti che andranno in onda a dicembre su Rai 3 in una fascia serale dopo Report e prima di Linea Notte.
Le puntate sono incentrate sul racconto di due periferie simbolo: Scampia e San Basilio. In entrambe le periferie lavoro su due fronti: in una prima puntata racconto della famiglia, ed è così che si intitolerà: Famiglia. Protagonista sarà Davide Cerullo. La sua storia ha dell’incredibile, ha raggiunto in questi anni una profonda consapevolezza, mi affascinava l’idea che potesse essere una sorta di Caronte, che assumesse una specie di valore salvifico ciò che ha fatto nella sua vita e le persone che ha incontrato. Attraverso lui che improvvisamente da semianalfabeta si appassiona alla parola, ho potuto raccontare quel meccanismo di sedimentazione della parola. Davide è un personaggio che ha consapevolezza di quello che è e ha fatto, quando si arriva a raccontare la consapevolezza delle persone, allora racconti una grande verità, perché solo loro sanno cosa hanno fatto, solo loro possono giudicare.
La seconda puntata su Scampia sarà sulla casa. Non è la prima volta che attraverso quei luoghi, nei quali è rimasta la sceneggiatura di Gomorra, luoghi in cui si vive una forma di arretramento sociale sempre più forte, la gente è ancora più povera, non sono che i resti di una società usata, vilipesa e strumentalizzata dal racconto televisivo e che sta vivendo continue disuguaglianze. Ci sono persone che si spostano da una vela all’altra perché hanno ottenuto le case popolari nuove, ci sono quelli che si spostano senza diritto nelle ville confiscate. Ci sono quelli che hanno occupato nuovamente, persone che vivono nei sottoscala senza residenza ed è come se fossero invisibili. Chiamerò quella puntata Il quinto stato, è evidente attraversando questi posti una sorta di abbassamento dei diritti. Dal punto di vista dei resti umani c’è una società in disequilibrio profondo, spaccati di povertà assoluta, è per questo mi interessava l’umanità che la abita, non la droga o lo spaccio.
Le puntate su San Basilio sono incentrate sul concetto dell’emergenza abitativa degli anni ’70, le lotte di classe. Racconto della fortissima presenza di donne che insieme a uomini hanno occupato un residence sulla Tiburtina accanto all’ex fabbrica della penicillina.
La seconda puntata sarà incentrata sul bene e male che a San Basilio, un’altra periferia disgraziata, convivono in un confine molto labile. Ho incontrato personaggi che vivono questo quartiere e sembrano usciti da un film, racconto le loro fragilità le loro debolezze, il loro modo di delinquere.
Le tue sono sempre storie tra cronaca e versante morale. È difficile oggi fidarsi e affidarsi a qualcuno per raccontare la propria storia?
Succede sempre una cosa bella, una sorta di magia in qualche modo. Ad un certo punto durante le riprese le persone si dimenticano della telecamera e parlano con me, ci guardiamo fissi negli occhi, non c’è mai una distrazione, non c’è mai un retropensiero. La gente di qualunque ceto o condizione culturale mi chiama e mi dice “io ti ho visto, ho visto che non hai giudicato”. Ormai le persone sanno come lavoro e quando mi cercano è perché chi decide di raccontarsi non si sente strumentalizzato.
Come scegli le storie che racconti?
Molte sono rimaste impigliate nella mia vita, come se avessi voluto accantonarle, magari perché in altri programmi non c’era spazio o tempo o modo di raccontarle ma ero sicuro che avrei potuto raccontarle nel corso della mia vita. In questi programmi è come se avessi ripreso tutte le cose annodate e tenute a mente per poi portarle di nuovo alla luce. Poi ci sono storie nuove, persone che mi cercano, si raccontano, e alcune di queste diventano le mie puntate.
Nelle tue interviste sei sempre più scomparso, la camera spesso è fissa su un particolare della persona che si sta raccontando. Come per Pasolini, il quale considerava il corpo strumento di lotta “Io vorrei soltanto vivere pur essendo poeta perché la vita si esprime anche solo con se stessa. Vorrei esprimermi con gli esempi gettare il mio corpo nella lotta”. Come mai questa scelta?
Pasolini in Comizi d’amore ha fatto un lavoro molto interessante. Lui si immergeva ma poi restava da parte, lasciava che fossero gli altri a parlare. Non c’era mai arroganza del microfono. Anche io non lo utilizzo più perché è un’arma, ti presenti con qualcosa e lo punti verso un’altra persona, è come se fosse un elemento coercitivo. Dal punto di vista della modalità narrativa televisiva il mio è un rallentare, una rottura improvvisa di quel ritmo frenetico. Però questa mia azione di rottura dell’ordine precostituito delle cose mi piace, mi fa sentire in antitesi. Mi piace, mi identifica perché guardo in una direzione opposta, cerco in direzione opposta, cerco dove altri non volgono lo sguardo.
Ormai abbiamo sviluppato una cattiva capacità di incrociare gli sguardi degli altri, spesso non guardiamo delle cose perché siamo concentrati su noi stessi, chiusi nei confronti dell’altro e questo non ci fa più essere curiosi.
La curiosità è la forma nuova di stare al mondo è una delle molle di questo nostro tempo, quando ognuno di noi riprenderà ad essere curioso il mondo cambierà marcia. Ad oggi siamo stati abituati ad un clima di paura, non ci fidiamo di noi stessi, non ci fidiamo di chi ci passa accanto.
Tutto il clima di dissenso verso i migranti, lo straniero, deriva da una sensazione di paura che in parte ci viene inculcata dalla politica in parte dall’attuale situazione economica che ci ha reso fragili. Siamo fragili e improvvisamene abbiamo iniziato ad avere paura, la paura determina un’ossessione, ci sentiamo esposti a una privazione, abbiamo paura che qualcuno ci usurpi, ci prenda, ci strappi quello che abbiamo ma questa paura è frutto di anni e anni in cui gli uomini hanno subito una sorta di pressione sulla natura stessa dell’uomo che invece di andare incontro all’altro si è chiuso in casa e in se stesso, e così siamo diventati muti.
C’è tempo per la felicità? Tu nei tuoi incontri quanta ne hai incontrata?
Quello che ho capito sempre più in questi anni è che davvero, e non è una frase fatta, la felicità è un qualcosa che si può rintracciare nelle piccole cose, non esiste il concetto di felicità immaginata sperata, assoluta. La felicità è una questione minima.
Anna Chiara Stellato