Ideologia e metro: “Delle nostre immagini” di Costantino Turchi
Delle nostre immagini (Arcipelago Itaca, 2020), che raccoglie testi scritti tra il 2014 e il 2018, è l’esordio di Costantino Turchi, giovane autore marchigiano. La sua poesia si concretizza in un meticoloso artigianato metrico, che veicola però una condizione di alienazione e insofferenza verso lo status quo. Evocando Sanguineti, perciò, intitoleremo Ideologia e metro.
Archeologia della metrica
È certamente utile sapere che Turchi si è interessato molto dell’uso della metrica in età contemporanea, e in particolare – dice il titolo della sua tesi di laurea – della Ripresa del sonetto. Sebbene non comprenda sonetti, Delle nostre immagini traduce in pratica l’interesse teorico di Turchi verso le strutture tradizionali e la loro attualizzazione. Se il verso libero compare, qui, lo fa in subordinazione all’endecasillabo e al settenario, in primis, quindi al novenario.
Il sistema rimico, la struttura (anche visiva) del componimento, sono accolti come strumenti essenziale della scrittura poetica: la maggior parte delle poesie di Turchi segue un flusso regolato da argini ben precisi. Messa in abisso, ad esempio, si articola in sei strofe di endecasillabi, di cui le due centrali (di un solo verso e in rima identica fra loro) fanno da perno a un procedimento a specchio: le tre strofe finali ripetono, capovolto, lo schema delle rime di quelle iniziali, recuperandone la prima e l’ultima e generando così un’architettura rimica complessa ed equilibrata (ovvero: ABBAC DCDF F | F FGHG HAIIA). Molto frequente è inoltre l’uso di assonanze e rime interne (Il paguro, Or qui, or là: ondeggio) e sapiente la disposizione degli accenti (come nella serie di vocaboli sdruccioli in “Non trattare male, ha un cuore d’oro”).
Se a questi espedienti fonici e strutturali si affianca l’uso di alcune espressioni o termini con patina arcaico-letteraria («O dolce villanella», «O vergine», «fanciullo», «desco», «algido») e di figure classiche («Plutone», «Edonio», «Ofelia»), la poesia di Turchi può apparire, superficialmente, come restauro di ispirazione classicista. Questa osservazione è facilmente decostruibile sottolineando che raramente le forme strutturali sono ascrivibili a tipologie canonizzate (notiamo la terzina dantesca in Edonio – Trionfo della tregua, e Sciogli i nodi che tengono ciascuna, composta in ottava rima), e in linea di massima tendono a costruirsi ex novo: la poesia di Turchi è, più che restauro, tentativo, ogni volta diverso, di fondazione strutturale, che al massimo abbozza la tradizione, ma, così facendo, contemporaneamente la smaschera.
Ciò che occorre davvero chiedersi, infatti, è quale ruolo abbiano queste infiltrazioni apparentemente classicistiche: la risposta, secondo me, va individuata proprio in una percepita precarietà della storia e della privazione del senso, e anzitutto del senso poetico. L’archeologia che Turchi compie su termini e tecniche antiche tradisce un desiderio di restituire alla poesia quella capacità di parola forte che storicamente ha perso. La metrica, il ritmo, sono infatti l’origine del poetico: restaurarli vale come rifondazione della poesia nella sua specificità e dunque ridotazione ad essa della sua capacità gnoseologica, critica, fonica originaria. Ma questo recupero non può darsi come restaurazione tout court: gli sparuti casi di “classicismo” metrico sono in verità residui all’interno di un flusso “metricante” che sa dell’originale ritmica del poetico ma non può riprodurlo – storicamente – in forme chiuse pacificate. L’ordinato mondo metrico di Turchi è in verità il relitto della poesia.
L’animato e l’inanimato
Scoperta la ragion storica già all’interno della ragion stilistica, conviene a questo punto spostarsi su questioni tematiche. Si può dire – ed è ancora raccordo tra analisi formale e analisi tematica – che l’immaginario turchiano è popolato da figure ben definite, che le sue poesie, insomma, non rinuncino a una forza semantica e certe volte tendano anche al narrativo. Ha certamente ragione Umberto Piersanti, che firma la prefazione, quando scrive: «Quello di Costantino Turchi è un linguaggio complesso ed elaborato dove le metafore si intrecciano fino quasi a rasentare formule criptiche: dico “quasi” perché questa poesia mantiene sempre una carica semantica e non si avventura mai nel campo minato della destrutturazione del senso» (p. 5). L’enigma, insomma, è interno alle figure, mentre lo strumento poesia ha la forza di rappresentarle e bandisce così la deflagrazione assoluta.
Tra queste figure troviamo certamente alcune persone, come Giovannina e Il prigioniero. A personaggi di questo tipo è assegnato il compito di riflessione esistenziale: Giovannina è una figura la cui leggerezza («Sei leggera, così non cede il ramo») è al contempo indipendenza forte («rifiuti per diletto i canti, / le corti, i fischi che ascolti alla sera») e incoscienza («non ricordi», «mai lo aspetteresti») o disarmonia con le leggi del mondo (l’albero di fico su cui è seduta, pure se rotto, rinascerà, e perciò «per te niente sarà una culla»); ancora più evidente la radice esistenzialistica di Il prigioniero, che si apre con un laconico «Chi siamo qui?» e si chiude con «lasciando a ognuno la disperazione / e la speranza che la volta dopo / non si ripeta identica alla prima».
Ma la vera carica enigmatica permea le figure di animali, delle quali solo alcune possono ricondursi a un significato allegorico (più o meno) preciso. Così ne Il paguro, che, distendendosi in un poemetto di dieci strofe, può raccontare la natura dell’animale con una certa completezza e costantemente metterla a confronto con quella umana. Anzi, il paguro può leggersi proprio come allegoria di ciò che l’umano ha perso, e cioè una forma di esistenza organica, l’essere tutt’uno con la propria abitazione, l’essere definito e obbediente alla propria natura («tu ti individui»): mentre il paguro vive «col, nel, del guscio», mentre al paguro toccano il «completo internamento» e la «simbiosi», l’uomo che lo guarda s’arrovella nell’incomprensione e nell’ottusità («occhi inefficaci», «enti che siamo estranei e possidenti», «Non sappiamo / che dire»).
Ad altri animali, invece, tocca un ruolo meno chiaro, fuori dai processi di individuazione che caratterizzano il paguro. È il caso della Zecca, ad esempio: la zecca e l’uomo, pur connessi al momento dell’attacco dell’animale, rimarranno cosmi tra loro incomprensibili («sarà una protesi attanagliata al proprio mondo»). «Zecca», «lucertola», «topo» compaiono come spettri senza ragione: a loro è assegnato il compito di vettori del non-senso all’interno di un contesto che pare ordinato e strutturato; assomigliano, cioè, ad allegorie vuote, quasi kafkiane, e, se accettiamo l’ipotesi di leggere la poesia turchiana come relitto, sono relitti del significato, che non scardinano – come dice Piersanti – l’intero fare poetico, ma ne simbolizzano le voragini semantiche.
In ultimo, accanto all’animato, possiamo nominare l’universo inanimato chiamato in causa dai testi: è soprattutto un universo di chincaglieria che ricorda certi scenari crepuscolari (in Canopi la morte traduce la persona in uno sparpagliamento di «mobili […] smontati», «vasi», «buste azzurrine», «lettere», «pellicce»…). E del resto anche il crepuscolarismo era senso dello svuotamento, condizione di relitto, il cui richiamo, qui, fa sprofondare ancora di più la percezione sottile di sradicamento esistenziale: «La città ha nelle sue strade un mercato / perennemente: i tendaggi di plastica / ristorano gli artefatti d’identica / materia mentre l’uomo è spaesato».
Che fare?
Questo equilibrio precario tra struttura e vuoto, è allora la dinamica base del libro di Turchi. Essa riflette una condizione storica che l’io riesce a cogliere ma non a sovvertire. Tutta l’etica di Delle nostre immagini è contenuta nei versi «Anch’io / (penso) dovrei defecare davanti l’ex sede dell’ex società di luce e gas»: la consapevolezza di un dovere politico-morale confligge con le opportunità reali della storia, e si traduce in un rantolo ideale (quel «penso» messo tra parentesi) e in una generale condizione di trapassato (il doppio «ex» segnala la situazione postuma della società umana nel suo complesso).
La poesia di Turchi, credo, trova il suo valore proprio in questa consapevolezza dell’accaduto, che si sposa però con l’insofferenza esistenziale dello status quo: l’impossibilità dell’azione concreta è vissuta con tormentoso senso di mancanza, e la poesia come relitto (il metro) non è altro che un tentativo di restituire alla capacità letteraria una capacità anche materiale, un’incidenza nello stato delle cose (l’ideologia).
Età, in apertura, mette l’intero libro sotto il segno della denuncia del tempo: «Pensavi che non sarebbe finita anche questa eternità?». Rimane da capire, ora, dove dirigere le forze della poesia.
Antonio Francesco Perozzi