Il sogno come matrice letteraria in “La legge del sognatore” di Daniel Pennac
Daniel Pennac ha da poco pubblicato il suo ultimo romanzo, La legge del sognatore (Feltrinelli), mostrando al pubblico letterario il germe dell’immaginazione, il punto da cui tutto comincia: è l’universo immaginifico del sogno, che sorprende l’uomo al proprio risveglio. L’opera nasce dalla volontà di narrare le vicende notturne, i terrori infantili, i luoghi dello scenario a occhi chiusi, creando un’occasione per guardarsi attraverso e cercare invano di circoscrivere il perimetro dell’immaginazione.
Il primo a ideare un Libro dei sogni era stato Fellini che cercava di riprodurre fedelmente le sensazioni vissute durante la notte, ricorrendo a vignette, ritratti e a descrizioni dettagliate. La semplicità delle immagini felliniane, che nascondono una complessità di contenuti e rievocazioni, ammaliano Pennac tanto da ispirarlo: il nuovo romanzo coniuga i sogni dello scrittore alla volontà di celebrare il regista, in un mutare continuo di spazio e tempo, che a tratti ricorda l’infinita ricerca di Se una notte d’inverno un viaggiatore.
Narrativa fluida
La difficoltà nel narrare il sogno, con i suoi tratti personalissimi e caratterizzanti dell’individuo, pone l’essere umano di fronte ai propri limiti e, di conseguenza, lo rende conscio della fallacità del linguaggio, che è già di per sé uno strumento ambiguo. Come descrivere le sensazioni offuscate e i lampi rivelatori? Il linguaggio, come l’argilla, deve farsi morbido e malleabile. Pennac, con il suo stile fantasioso e accessibile, dà vita a un bildungsroman del sognatore, che cresce attraverso il ricordo delle immagini notturne, trasformandole col passare degli anni. Come già accadeva in Amarcord di Fellini, i dialoghi sono caratterizzati da un lessico semplificato e quotidiano, spesso stravagante; al contrario, i sogni vengono narrati attraverso i termini della paura e dello stupore, senza tralasciare alcun dettaglio, mentre il filo della narrazione è labirintico e ingannevole e, a ogni risveglio, è interrotto da malinconia e disillusione. Sarà il lettore stesso, pagina dopo pagina, a mettere in discussione la veridicità dei fatti, accompagnando Pennac nel suo percorso di interpretazione dei sogni.
Come in un racconto di Borges o di Calvino, la realtà ha la consistenza di un velo di nebbia: lo stesso che terrorizza e confonde l’anziano di Amarcord, mentre va a morire.
La costruzione dei personaggi
Federico Fellini, nel selezionare gli attori, era solito ricorrere alle creature sognate: durante i lunghi casting nello Studio 5 di Cinecittà, non smetteva mai di essere fedele alla propria immaginazione. «Federico era un uomo popolato!», afferma Pennac nel suo romanzo, affidandosi alle illustrazioni del regista. Persino il pavone di Amarcord, poggiato sul bordo di una fontana e circondato dalla neve, era stato prima sognato e poi ritratto con cura.
«La maggior parte dei suoi personaggi lo abitavano prima ancora che girasse i suoi film. Li sognava e li disegnava sul “Libro dei sogni”, oppure li immaginava e ne faceva uno schizzo sull’angolo della tovaglia: bastavano tre tratti di matita e veniva fuori qualcuno. Quel qualcuno, quella figura uscita dalla sua testa, lui poi la cercava nella vita vera per farne un personaggio».
Nel romanzo di Pennac, la vita reale si mescola a quella dei romanzi, trasformando il sogno in dubbio esistenziale: si è davvero ispirato all’amico Louis per costruire la figura ricorrente di Kamo? L’Atlantide sognata, con la sua chiesa sotterranea, è davvero esistita? I suoi genitori sono stati così encomiabili? Il romanzo è una discesa negli abissi dell’animo, un continuo domandare che è proprio della crescita dell’individuo.
Libertà creativa
L’idea del sogno nasce da un’esperienza lavorativa di Pennac: durante il mestiere di insegnante, si era imbattuto nel blocco creativo dei propri studenti, annoiati dall’approccio canonico alla scrittura, che li spingeva a riprodurre gli schemi conosciuti e a rinunciare alle proprie peculiarità artistiche. Faticavano a raggiungere uno stile fluido e si sentivano braccati dai dettami della grammatica: lo scrittore li spinse a narrare i propri sogni, trascrivendoli ogni giorno su un quaderno. Durante la stesura, gli aspetti stilistici passavano in secondo piano, lasciando spazio alla libertà di contenuti. In un secondo momento, gli studenti cominciarono a esporli di fronte alla classe: dopo aver ascoltato, l’insegnante si occupava di riordinare i periodi sconnessi e favorire il funzionamento della sintassi. Il risultato fu sorprendente, dal momento che riuscirono a riappropriarsi di una scrittura primordiale e svincolata dal giudizio. Grazie a questo escamotage, il sogno si trasformava nel mezzo più utile per legittimare un’immaginazione fervida e stravagante, per tornare a scrivere liberamente. Lo stesso Fellini, verso la fine della sua esistenza, aveva incontrato un muro nell’immaginazione: è un dato che commuove e intristisce Pennac, spingendolo ad affermare che «quell’uomo per cui il sogno era stato la vita stessa era morto perché non riusciva più a sognare».
Lo stampo malinconico di questo romanzo, col suo susseguirsi di citazioni felliniane, non è che un amarcord (dal romagnolo, “mi ricordo”) che celebra l’immaginazione e la bellezza del ricordo.
Rebecca Cicchetti