Malèna, erotismo siciliano
Una ventina d’anni fa i tombini del centro storico della mia città vennero sostituiti con altri tombini che recavano uno stemma fittizio e una bizzarra iscrizione: “Città di Castelcutò”.
Era la tarda estate del 1999 e Giuseppe Tornatore era approdato a Siracusa con tutto il poderoso apparato dell’industria cinematografica – fatto di attori, produttori, maestranze, costumisti, comparse, assistenti e addetti alla sicurezza – per girare Malèna, uscito in Italia il 27 ottobre 2000.
La piazza del Duomo di Siracusa si era trasformata in un grande set naturale, col suo barocco imperioso che facilmente e credibilmente si lasciava ritoccare per un’ambientazione da primi anni ’40. Bastava sostituire le insegne dei bar e dei ristoranti con delle tavole più artigianali e delle scritte dal carattere démodé.
Io affacciato da un balcone al primo piano spiavo la macchina da presa, il rito del ciak, dal sapore tanto hollywoodiano, e il regista che, megafono alla mano, dava indicazioni come nelle scene più scontate che si possano pensare quando i non addetti ai lavori si immaginano la lavorazione di un film. Ma era tutto vero e finzione allo stesso tempo: c’era Siracusa e c’era Castelcutò (paese fittizio in cui era ambientata la storia), c’era l’idea del cinema e c’era un regista in carne e ossa che si comportava con autorevolezza e presunzione, urlando nel megafono: «Forza, ché dobbiamo vincere l’Oscar!».
Monica Bellucci eletta siciliana
E poi c’era lei, Monica Bellucci, l’attrice italiana più apprezzata al momento, che cinque anni prima, nonostante la sua origine umbra, aveva incarnato lo stereotipo più sensuale, e forse anche più banale, dell’erotismo siciliano lasciandosi dirigere, sempre da Tornatore, in uno spot per l’ultimo profumo di Dolce&Gabbana. Sappiamo che il marketing dei profumi raramente può prescindere dai concetti di erotismo, potere e seduzione; Monica Bellucci era stata molto convincente nel rappresentarli, e per di più la sua fisicità non contrastava con l’ideale della donna siciliana dalle forme generose e dai capelli scuri.
È forse proprio a Siracusa che Monica Bellucci venne definitivamente consacrata come una star del cinema internazionale destinando a un graduale assopimento la fama di modella che aveva fino a quel momento rappresentato la sua principale attività. Dopo l’incontro sul set pubblicitario, Tornatore si era reso conto che le fantasie erotiche che riecheggiano dalla sua adolescenza e rimbombavano nel soggetto di Luciano Vincenzoni potevano essere finalmente incarnate e, tenendo ben in mente Monica Bellucci, si impegnò a cucirle addosso – si fa per dire – una storia e una pellicola sicilianissime come lui.
Il titolo del film Malèna, come ormai ben sappiamo, è un eponimico che deriva dal nome della protagonista interpretata da Monica Bellucci. Malèna non parla molto durante il film, ma quelle poche volte che apre bocca finge un accento siciliano ben curato. Per il resto, nei 109 minuti di visione cammina molto spesso e non di rado si spoglia, anche integralmente. La versione destinata al cinema anglosassone risente di pesanti tagli che riducono la durata a soli 92 minuti, spesso sacrificando le scene più spinte. Ciò nonostante, al tempo dell’uscita nelle sale americane non mancarono critiche pesanti come quella del Washington Post, che recensì Malèna come un «Porky’s in salsa marinara».
La camminata di Malèna
Dicevamo che Malèna è ritratta in molte scene nell’atto di camminare. È così che Tornatore vuole stimolare il senso dell’attesa, promettendo e frustrando le attese dello spettatore che si interroga sul possibile epilogo di certi lunghi tragitti. Malèna attraversa il paese e tutti la guardano, la osservano, la ammirano, si lasciano sfuggire dei commenti. Ma sia l’ammirazione che i commenti sono sempre filtrati da una lente di volgarità, perché questa è l’unica possibile reazione di fronte a tanta avvenenza: come per un oggetto di desiderio invidiato ma impossibile da raggiungere, il disprezzo e la volgarità sono l’unico rimedio per raggiungere un surrogato di appagamento. Insomma, solo dandole della poco di buono e sporcandola di maldicenze, la sua bellezza è sostenibile. In questo Tornatore mostra con efficacia la sessualità repressa del popolo meridionale, la predilezione con cui la si associa a qualcosa di sporco e misterioso, l’inclinazione al rancore provocato da invidie e gelosie, e la totale inettitudine a gestire una bellezza ferina da cui ci si sente minacciati.
La camminata di Malèna è simbolica: non solo la dimestichezza della Bellucci con le passerelle la rende perfetta nel mostrare sensualità e portamento, ma è anche un modo per assegnare al personaggio un ruolo nel quale spariscono il dialogo, la contrapposizione drammatica di opinioni, il confronto intellettuale, l’espressione dei sentimenti attraverso una elaborazione mediata dal linguaggio delle parole piuttosto che da quello del corpo. È, in altre parole, la dominanza dell’esteriorità che ha il sopravvento su ciò che è intimo e spirituale.
La bellezza come colpa
Se la sola dimensione esteriore è quella destinata a guidare i giudizi su Malèna, va da sé che la bellezza diventi in lei una colpa, specialmente in un clima di grande invidia per le donne, di timore per le mogli (a causa dell’attrazione suscitata nei mariti), e di frustrazione per gli uomini che non possono possederla. Tutti hanno un buon motivo per odiarla e tutti godono nel vederla finalmente trasformata, piegata e arresa al ruolo che malignamente le è stato assegnato dalla società: quando Malèna sente di aver perso tutto, cioè quando vengono a mancare gli unici affetti della sua vita (il marito è dato per disperso al fronte e il padre muore sotto i bombardamenti), non vede altra scelta se non quella di diventare la prostituta che ognuno aveva preconizzato.
La consolazione collettiva di vedere confermati i propri sospetti sul suo conto, però, alla fine è magra ed effimera perché, da prostituta, Malèna non fa che esasperare i vecchi tormenti che affliggevano già gli uomini e le donne del paese: i primi si contendono un posto nel suo letto, le seconde si vedono ancora più inadeguate nella competizione femminile e nel catturare l’attenzione dei mariti.
Renato e l’ossessione erotica
Nella tempesta di giudizi accecati dall’acrimonia, il coprotagonista dodicenne Renato è l’unico maschio in paese che non dubita mai dell’integrità etica di Malèna. La scoperta della propria sessualità e delle pulsioni tipicamente adolescenziali trasformano Renato in un ragazzino completamente assorbito dalla curiosità per la donna. Certamente è una curiosità morbosa e totalizzante che sfocia nell’ossessione e nello stalking, ma che non perde mai il rispetto per la dimensione spirituale di Malèna anche quando fa del corpo di lei un oggetto di ineluttabile desiderio erotico.
I sogni (ad occhi aperti) del ragazzo si fondono con improbabili atti di eroismo e di romanticismo, dove il sesso è agognato in un clima da favola o da luogo romanzato nel quale prevale spesso un senso di nostalgia. Le sfumature di questa nostalgia si diramano caleidoscopicamente, toccando la melancolia, l’irruenza, la tenerezza, senza però rinunciare alla genitalità.
La stima del giovane Renato nei riguardi di Malèna non è dunque sublimata al punto di essere un amore meramente spirituale. Al contrario, Renato si confronta con una nudità e un sogno che sono per lui accecanti, obnubilanti, causa di comportamenti irrazionali o considerati fuori dal normale. La vede nuda quando sta per sedersi in tribunale o quando, spiandola mentre cucina, si abbassa per raccogliere una presina caduta sul pavimento.
In preda al delirio, Renato comincia a (in)seguire Malèna dappertutto, spia le sue mosse compiendo azioni molto pericolose come arrampicarsi su alberi e impalcature, mostra una devozione immotivata nei suoi riguardi mista ad allucinazioni (durante la processione del Venerdì Santo arriva a vedere le fattezze di Malèna nella statua della Madonna), nutre una gelosia morbosa per gli adulti con cui lei instaura relazioni intime.
La bellezza, impalpabile e irraggiungibile
L’amore per Malèna è sempre immaginato, presupposto, sognato o preteso. Lo sogna Renato, lo pretendono i gerarchi fascisti, lo presuppongono i falsi benefattori con una punta di ipocrisia. In particolare è Renato, narratore della storia e punto di vista privilegiato del film, a mostrare come tutto il sentimento per Malèna sia solo un costrutto del desiderio e dell’immaginazione delirante.
L’unico contatto autentico tra Renato e Malèna avviene solo nell’epilogo, quando il ragazzo, ormai giovincello, si china per raccogliere delle arance che sono cadute dalla borsa della spesa di Malèna. In quella occasione, col pretesto di riporre le arance nella busta, Renato sfiora la mano della donna, e questa incrocia distrattamente lo sguardo di lui per ringraziarlo. Uno sguardo, una parola e una mano sfiorata sono l’unico precario e irrilevante momento di comunione dopo anni di fantasie e di ossessioni.
Lascia alquanto riflettere che il fugace scambio sia avvenuto solo dopo le trasformazioni e le umiliazioni subite da Malèna, dopo il suo allontanamento “obbligato” da Castelcutò e dopo il suo ritorno a fianco del marito, che era stato dato erroneamente per disperso. Malèna, il cui corpo è precocemente segnato dal tempo e il suo aspetto è meno appariscente per via di abiti più castigati e dimessi, viene così accettata dai suoi aguzzini del passato: le megere del paese, non temendone più il fascino e la rivalità, si mostrano empatiche ed affettuose con lei; gli uomini non sembrano più guardarla in preda a pensieri lussuriosi. Il fatto che Renato trovi il coraggio di parlarle solo in queste circostanze aggiunge all’epilogo un velo di amarezza, perché conferma che solo così – cioè meno femminile, meno attraente e meno appariscente – Malèna può essere avvicinata. O forse Tornatore ci vuole semplicemente dire che la bellezza, nella sua accezione greca di proporzione e armonia delle forme, è impalpabile, eterea e irraggiungibile.
Giuseppe Raudino