Racconto: Interno 5 – Chiara Rassu
Io ero quella che non si presentava mai alle riunioni di condominio, ed ero quella che faceva più casino. Musica a palla alle undici di sera, asciugacapelli alle tre di notte, chitarra alle otto di mattina.
Non mi andava di andarci perché si discuteva di cose che non mi interessavano. Tipo che giorno far venire la donna che puliva le scale e i pianerottoli, o a chi rivolgersi per pulire le grondaie. «Il primo che esce al mattino deve mettere i bidoni in strada e chi rientra per primo, quando i netturbini sono passati, deve rimetterli a posto». Ma di che orari parlano? E di quale mondezza?
Forse di quella che ha quasi raggiunto il soffitto del mio sgabuzzino. Un giorno di questi tolgo tutto e pulisco, dico ogni volta che ci butto dentro qualcosa.
Ricordo che era un secondo bagno, un tempo. Ora la porta si apre di poco perché c’è troppa roba dietro e l’odore è simile a quello che sentireste profanando una tomba. Quando ci infilo qualcosa, in quello sgabuzzino, devo fare in fretta, sennò i moscerini escono e mi invadono la casa. Non saprei cosa fare, in quel caso: casa mia è perfetta. A parte lo sgabuzzino.
Una volta l’amministratore mi ha chiamato perché gli altri condomini erano preoccupati. La mia macchina era ferma lì da tre giorni e passando davanti alla porta di casa mia si sentiva un odore forte. Pensavano fossi morta, questi qua. Ma io non ho risposto alla chiamata, il motivo l’ho scoperto quando lui si era stufato di telefonare e aveva suonato il campanello. Mio malgrado avevo aperto la porta. Se pensate di aver visto il miglior sorriso falso di sempre, non avete visto quello che l’amministratore aveva su quel giorno.
Mi spiegava il motivo per cui era lì, ma era intento a sbirciare alle mie spalle. Parlava a vanvera perché era shoccato dalla lucentezza dei miei mobili, pavimenti, specchi e quant’altro. «Non so cosa dirle, sicuramente non viene da qua», avevo risposto. E lui, contrariato, aveva sorriso di nuovo e se n’era andato.
«Sì, mi scusi, è che purtroppo non sapevo dove altro mettere quello stronzo del mio ex». Vi immaginate la sua faccia se avessi detto la verità? Vi immaginate la riunione di condominio di sette ore per discutere dell’impresa di pulizie da chiamare per pulire il mio sgabuzzino?
«Sì pronto salve per caso rimuovete anche cadaveri?».
«No guardi per quello deve chiamare la polizia».
«Eh ma provi a capirmi, io sono l’amministratore, se chiamo la polizia poi mi vogliono parlare, poi convocano i miei condomini e insomma… non è che abbiamo tutto questo tempo. Che comunque stando all’odore nel bidone dell’umido ci sta, lo toglie quello che va a lavoro alle cinque e mezza che tanto manco se ne accorge».
E il mio sgabuzzino? E la mia bella casa?
No, non potevo dirgli la verità.
Che tra l’altro il mio ex era un verme, quindi se lo meritava di essere mangiato dai suoi simili. Magari non dentro casa mia, certo.
Comunque tenevo conto degli studi di scienze: in una o due settimane nel bidone dell’umido ci entrava davvero. Era grasso, quindi la maggior parte del corpo si era decomposta subito. I sacchi pesanti ce li lanciavo sopra di proposito, per vedere di quanto si era rimpicciolito l’ammasso di ciccia e ossa all’interno del sacco nero.
Avevo perso le speranze, nei primi mesi, perché era troppo grosso. E che odore. Lo ricopro con altra mondezza così se qualche ospite ci capita per sbaglio mentre cerca il bagno pensa che io sia schifosa e disordinata, mi ero detta. Ma il resto della casa era immacolato.
Fortuna che ospiti non ne avevo mai, altrimenti avrebbero sospettato.
Eppure quello sgabuzzino mi faceva stare bene; era la rappresentazione della mia mente. Tutto pulito, perfettamente ordinato, tranne quella piccola stanza.
Era come vedere il mio cervello dal vivo, come poterlo toccare. Avevo anche il potere di ripulirlo. Ma chi voleva ripulirlo? Altri avrebbero passato ore a spiegare allo psichiatra cosa non andava, io invece potevo mostrarglielo. Potevo farlo venire in casa, dirgli che poteva mangiare dalla tavoletta del cesso e poi aprire la porta dello sgabuzzino e dire “Il problema è questo”. Decine di sedute risparmiate.
Però non volevo farlo vedere a nessuno.
Nemmeno a me piaceva guardarlo, ma sapere che c’era, quella zona buia in mezzo al bianco illibato dei pavimenti e dei mobili, mi dava equilibrio. Per quanto voi sentiate dire “è tutto perfetto, tutto a posto”, non è mai vero. C’è sempre qualcosa che stona, che devia. Come il mio sgabuzzino.
Un giorno di questi però lo pulisco eh, promesso.
Chiara Rassu
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