Parallelismi tra vita e boxe
Scazzottate, allenamenti, combattimenti. Sentire la fatica fino allo sfinimento. L’uomo vero si vede nella fatica, e per questo desidera costantemente lo sforzo, unico rimedio per inghiottire i brutti pensieri e ripulirsi da ogni scoria. Nel romanzo di Alessandro Mari intitolato Cronaca di Lei (Feltrinelli 2017), non è difficile indovinare i parallelismi tra vita e boxe, tra combattimenti esistenziali e difficoltà vissute tra le corde di un ring.
L’acqua è l’elemento del dolore
Milo Montero è un pugile professionista che vuole riconquistare il titolo mondiale. La sua fisicità è massiccia e presente, insieme ai vestiti anneriti dal sudore, al cibo della sua particolare dieta, ai muscoli tesi in allenamento o negli incontri più intimi. In un paese imprecisato non molto lontano da Milano, il campione si prepara a un match importante tenendosi a distanza dalla mondanità e dal trambusto della metropoli. È il paese della sua infanzia, ma anche il paese che gli ricorda un terribile dolore familiare, una sconfitta insopportabile, sempre viva anche dopo tanti anni, che cerca di superare immergendosi nel fiume vicino – teatro del lontano dramma – o lasciandosi scuotere per venti minuti dall’acqua fredda dell’idromassaggio a conclusione degli allenamenti mattutini. È l’acqua l’elemento del suo dolore, l’elemento che gli attraversa vita imperlando di sudore il suo volto tumefatto o battendo sui vetri sotto forma di temporale. La villa, che diventa il nuovo quartier generale del team di Milo Montero, si popola gradatamente di figure e oggetti. C’è un andirivieni di camion che scaricano “bancali di immani scatoloni” contenenti roba e attrezzature ordinarie ma al contempo insolite, quasi venissero da un passato molto lontano, forse anche perché si tratta di roba consegnata con “quei dannati bancali” che in qualche modo evocano la giovinezza segnata dal dramma familiare. E poi c’è un turbine di personaggi, più e meno importanti, che ruotano attorno al campione, che da lui succhiano linfa vitale come parassiti travestiti da generosi aiutanti, e che in varia misura attingono alle risorse del suo impero finanziario, fatto di marchi commerciali, palestre, energy drink e sponsor.
Il clan dei parassiti e Lei
Quasi a simboleggiare la rassegnazione con cui vengono accettati questi “parassiti”, Milo Montero apre per loro i pesanti cancelli della sua tenuta, dove appunto non mancano vere e proprie “celle […] [in un’]ala della villa, [destinate come] rifugio di viandanti e pellegrini e membri del clan”. Tra le figure che emergono da questo clan ce ne sono almeno tre di spicco. Irene, sorella e manager di Milo, è una donna colma di determinazione e sprovvista di scrupoli. Leo Ruffo è lo scrittore incaricato di preparare un libro su Milo – ennesimo strumento della macchina pubblicitaria ideata da Irene attorno al brand costruito sul nome del fratello, soprannominato One Way. E poi c’è lei, semplicemente “Lei”, la ragazza di cui il testo non ci rivela il nome ma che paradossalmente assurge a protagonista, prepotentemente e ostinatamente, fino a introdursi nel titolo stesso del romanzo. È lei la chiave di tutto, la persona che cambia ogni cosa nella vita di Milo, la donna che fa nascere un sentimento forte in lui: ed è proprio così che Milo One Way Montero “sente ancora più forte di volerla in questa [nuova fase della sua] vita, […] [perché con lei] potrebbe pure inventarci un buon amore”.La ragazza la incontriamo subito, nell’incipit, mentre si incammina in direzione della villa. È inseguita da un temporale minaccioso (ecco che torna il tema dell’acqua) e, nel buio della sera, attraversa il bosco che separa il paesino dalla collina in cui sorge la villa di Milo. Una volta lasciatosi il bosco alle spalle, la collina le appare “come un cranio colossale venuto su per un qualche morbo del sottoterra, o dimenticato sulla pianura da una mano più colossale ancora”. Il riferimento a una forza trascendente e al Calvario, che è un’altura il cui nome vuol dire appunto “cranio”, è molto forte. Dopotutto abbiamo già sottolineato come la fatica e la sofferenza siano dei temi centrali in questa storia. Ecco allora che, a fare da contrappunto alla pesantezza della fatica, la ragazza viene presentata nella sua totale leggerezza – elemento d’aria che si affianca a quello dell’acqua – mentre “spalanca le braccia come volesse catturare il vento con due umanissime ali”.Si potrebbe azzardare che nella ragazza si adombri una dicotomia tra bene e male, tra essere angelico (ali) e creatura terrena (umanissime), tra apparenza ingannatrice e genuina essenza. Non a caso ha spesso un fare provocante che rivela eccellenti capacità di dissimulazione e seduzione, eppure ha anche “una faccia che sembra avere sotto qualcosa di vero”.Questo qualcosa di vero è custodito nell’intimo della sua coscienza, nella ferma riluttanza a parlare del proprio passato, nel segreto di un segno che porta sulla pelle. E proprio quest’ultimo particolare rivela il tratto più malinconico della ragazza: in mezzo a un clan di uomini e donne che ostentano corpi tatuati con dettagli che rimandano ad aspetti epici della loro vita e del loro carattere, lei nasconde il segno permanente di un misterioso dolore che in lei ha preso forma di cicatrice sulla schiena.
Il mistero del nome
L’aura di mistero che avvolge la ragazza è ulteriormente corroborata dalla scelta stilistica dell’autore, il quale decide di non svelarne mai il nome, eccetto forse per una frase ambigua nella quale potrebbe averlo celato di proposito e non senza maestria. La frase in questione è pronunciata dalla migliore amica di lei, che si rivolge alla ragazza dicendo: “Aria, avevo bisogno d’aria”. A prima vista verrebbe da pensare che si tratti di una epanalessi (o geminatio), quella figura retorica che consiste nel ripetere una parola all’interno della stessa frase per rafforzarne il significato (e a essere pignoli si potrebbe parlare ancor meglio di epanadiplosi, perché la ripetizione rigarda la parola d’inizio e la parola finale della frase). Se così non fosse, però, la prima “Aria” sarebbe un nome proprio di persona, un vocativo, ovvero il nome della ragazza, alla quale l’amica si sta rivolgendo.
Un angelo alla ricerca della felicità primordiale
Ma torniamo alle sembianze semi-angeliche della ragazza, con le braccia come ali che si oppongono all’aria della tempesta e con un viso bellissimo – proprio dell’iconografia dell’angelo – che nasconde qualcosa di vero sotto la sua superficie. Un angelo, forse, chiamato Aria e privato delle ali, al posto delle quali ora si intravede la cicatrice causata dalla loro perdita.Sembra proprio che il compito di questo angelo terreste sia quello di prendersi cura del campione e di riportare entrambi a una condizione di primordiale felicità, guidandolo attraverso un cammino di sacrifici e rinunce (ecco che ritorna il tema del calvario) con lo scopo di ritrovare l’autenticità del loro amore. “Tu sapresti vivere senza questa villa, le palestre, senza il resto? […] Io so vivere senza tutto questo” mette in chiaro la ragazza a un certo punto, rivolgendosi a Milo. Il suo è indubbiamente un continuo anelare alla “vastità” del loro rapporto, una continua ricerca di “cosa resta una volta strappate le superfici da tutte le cose”. E subito dopo lei puntualizza: “Sapresti lasciare tutto per me?”. Insomma, la felicità primordiale alla quale aspirano è una felicità che somiglia al prima, alla condizione ante quem della loro esistenza, a un ricordo di felicità non ancora graffiata da tragedie familiari, non ancora corrotta dal successo e dai soldi, mentre il loro legame presente è così forte che deve prescindere da ogni difetto, nonostante il loro lati oscuri e il germe di male spirituale che ineluttabilmente vive dentro di loro. “Ti amo anche sei fai schifo, dice la ragazza. Tu sei capace di amarmi anche se faccio schifo?”
L’importanza degli odori
Un ultimo aspetto rilevante di questo straordinario romanzo Cronaca di Lei riguarda gli odori. Al contrario di quanto avviene nella maggior parte dei testi letterari in circolazione, l’olfatto è un senso al quale Alessandro Mari dà ampio spazio, un tratto che definisce i personaggi, che mappa gli ambienti, che descrive gli stati d’animo e le passioni. I luoghi esterni sono ben definiti: si passa dall’odore di “lisoformio e canfora e sudore” presente nella palestra a quello “di pane speziato che erompe dai chioschi […] [e ti] impregna la sciarpa”. Sotto “il cielo stellato, [si avverte] l’odore dell’erba rasata dai giardinieri”, ma nel “quartiere della Ferrovia l’odore cambia di nuovo, [e sa di] spezie, frittura, benzina”. L’odore riflette anche le stagioni, come quando “viene l’odore forte della pioggia che rimbalza sul davanzale e ricade sul pavimento”, ma anche quando “c’è odore di terra, […] [che] oltre la sbarra in fondo alla stradina l’aria prende un sentore inaridito e dolciastro. L’odore di una città in agosto”. Odori, sempre odori. A volte gli odori sono profumi, altre volte la loro sgradevolezza marca gli ambienti da cui provengono, soprattutto ambienti chiusi, come il commissariato che odora di “muffa e calcina” o quello della casa appena ristrutturata che “odora di colla, pittura, deodorante per tessuti”. E ancora: odore di incenso, “termosifoni e marijuana”, “alito di corpi sudati” e “fotocopiatrici che odorano di ossidi e carbone” nella sala studio dell’università… Man mano che la scena cambia, cambiano gli odori, rendendola più gradevole o ripugnante, dandole una precisa tonalità olfattiva, carezzando e arricchendo l’immaginifica sensorialità del lettore. Gli odori definiscono anche il carattere dei personaggi, la loro intimità, ne accentuano l’umore. Irene spande “un profumo amaro e sofisticato”. La ragazza, lei, ha al contrario un profumo buono che a più riprese Milo riconosce e apprezza, mentre l’odore stesso di Milo è estremamente mascolino, se non addirittura sgradevole, come quello che verosimilmente lascia nell’abitacolo della macchina, impregnato di un tanfo “acre, animale, che il deodorante non riesce a mascherare”. In un’altra circostanza, l’odore del campione di pugilato sarà invece quello di sudore e sangue che, a un certo punto della storia, lo accompagneranno dal ring fino al letto di un ospedale. In mezzo a tutta questa tempesta olfattiva c’è infine Buster, il cane fidatissimo di Milo, “che lo difende da insidie impensabili e pericoli senza forma, ma all’apparenza con un odore”. È proprio Buster, in un’occasione ben precisa, a puntare “le zampe sulla balaustra [e a] muove[re] febbrilmente il naso”, come se “fiutasse un’incongruenza negli odori”. Lo stesso accade quando successivamente si prospetta una minaccia di “odore amarognolo quasi impercettibile” che Buster fiuta con decisione. E poi ancora Buster che “solleva il muso […] [e] sembra fiutare la tensione”.
L’autenticità dei personaggi
La prosa di Alessandro Mari è ritmata, incalzante, ricca di elementi concreti che offrono al lettore tutta l’autenticità dei personaggi e del loro mondo, anche quando il lettore non ha familiarità con l’ambiente della boxe. Perché, in fin dei conti, la boxe, per quanto centrale nel romanzo, è solo un pretesto per raccontare una grande storia di sacrifici da affrontare per raggiungere con onestà gli obiettivi più importanti della propria vita; o, forse, una grande storia per definire, attraverso la fatica e la perseveranza, ciò che veramente è importante, ciò per cui vale la pena vivere e combattere.
Giuseppe Raudino