Giulia Caminito e il lago dell’adolescenza
Intervista a Giulia Caminito
di Nunzio Bellassai
Il lago. Un sistema apparentemente chiuso che in realtà si nutre di forze esterne. Un grande immissario, la città, Roma. Anguillara e Roma sono i due poli attorno a cui si svolge la vita di Gaia, la giovane protagonista di L’acqua del lago non è mai dolce. Una famiglia numerosa, in difficoltà, retta a fatica dalla madre Antonia che auspica un futuro migliore per i propri figli. Il padre è bloccato su una sedia a rotelle a seguito di un incidente sul lavoro.
E l’adolescenza. L’età difficile, gli anni del malessere, della scoperta del proprio corpo. Una metamorfosi vissuta in un periodo di transizione come gli anni Duemila, anni attraversati da stragi e cambiamenti epocali. Il crollo delle Torri gemelle, gli scontri di Genova, la crisi economica. Tutti spettri che sopravvivono nella realtà isolata del lago di Bracciano.
Gaia è pronta a vivere la propria vita, ma teme le insidie, gli imprevisti, gli ostacoli che le si presentano all’occorrenza. Lei e gli altri. Un insieme di persone che la travolgono e a volte la deludono, accompagnato dalla scoperta di nuovi ambienti e contesti sociali. Gaia rappresenta perfettamente la rabbia, la voglia di riscatto di una generazione affamata, pronta a tutto pur di raggiungere l’affermazione di sé.
Giulia Caminito lavora da anni nel mondo dell’editoria. Con il suo primo romanzo, La Grande A (Giunti, 2006) ha vinto il Premio Bagutta opera prima e il Premio Brancati giovani, seguito nel 2019 da Un giorno verrà (Bompiani), con cui si è aggiudicata il Premio Fiesole Under 40. L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani) è entrato nella cinquina del Premio Campiello e nella dozzina del Premio Strega 2021.
La scoperta del lago come luogo chiuso, a tratti asfittico, ma solo apparentemente, condiziona l’intreccio del romanzo. Tu sei nata a Roma, come hai scoperto Anguillara? E perché l’hai scelta come teatro della vita di Gaia?
Sono nata a Roma dove ho vissuto fino ai 4 anni di età, poi la mia famiglia ha deciso di trasferirsi ad Anguillara Sabazia. In quegli anni infatti venne inaugurata la ferrovia che permetteva ai miei genitori di andare al lavoro molto comodamente. Comprarono con mio nonno una grande casa con giardino, allora costavano davvero poco fuori Roma, e così iniziò la mia scoperta del lago e del paese. Gli anni in cui ho vissuto di più vicina al lago sono di sicuro quelli dell’adolescenza, perché l’acqua del lago calamita molta della vita sociale del paese e quindi le nostre uscite, chiacchiere, tuffi, incontri avvenivano affacciati sul lago.
Gaia ha un rapporto conflittuale con il corpo, condizionato dai giudizi altrui, da frasi di troppo di compagni di scuola o amici. Come accade nella Solitudine dei numeri primi o nei romanzi di Ciabatti, il corpo diventa un’ossessione da esorcizzare. È la società che spinge a una maggiore attenzione all’esteriorità (e quindi a giudizi sul corpo) o il personaggio che assegna un diverso peso a frasi a cui prima magari avrebbe dato minor importanza?
Penso sia un peso sociale quello del corpo, e che siano sociali le parole che vengono usate per parlare dei corpi. Siamo condizionati e attraversati da come si narrano i corpi nella sfera pubblica, ossessionati dalle imperfezioni, dai difetti. Alla protagonista capita di diventare vittima di un suo compagno di classe che ha individuato un suo difetto fisico, l’avere le orecchie grandi, e su questo difetto costruisce tutta una identità per Gaia. Il difetto diventa il suo soprannome, “Orecchie”, così da far sparire la ragazzina che lei è, tutto il resto del suo corpo che si sta ancora formando, che sta crescendo. È quindi una operazione di riduzione, di semplificazione fisica che non può che impattare sull’umore e sulla percezione. Lei si vedrà sempre quel difetto addosso, lo sentirà definitivo e irrisolvibile per il resto della vita. Anche quando nessuno la chiamerà più “Orecchie”, qualcosa dentro di lei ricorderà quel soprannome e il ricordo sarà frustrazione, sconforto, debolezza.
Come definiresti il rapporto che i personaggi dei tuoi romanzi hanno con il corpo? E quali divergenze caratterizzano Gaia?
I vari personaggi hanno rapporti diversi col proprio corpo. Antonia, la madre, ha un corpo che lavora, che opera, che sostiene, un corpo che ingombra con la sua forza lo spazio, che è sempre in movimento. Il padre, Massimo, ha un corpo fermo, in contrasto con quello sempre agile della moglie, perché per colpa di un infortunio sul lavoro è rimasto paralizzato, e ha iniziato a tenere nascosto in casa quel corpo, sono gli altri a doversene a volte occupare e lui passa fasi in cui addirittura non vuole nutrirsi, altre in cui se ne vergogna, altre in cui questa fissità diventa ostacolo per una presa di parola sulle dinamiche della famiglia. Mariano, il fratello, ha anche lui quello che da fuori potrebbe sembrare un difetto, un naso troppo pronunciato, ma in realtà ne fa una arma, un carattere, quel naso diventa parte della sua persona, si scioglie e si armonizza, visto che lui non dà abbastanza peso alle canzonature degli altri. Gaia a volte ama alcune parti del proprio corpo, altre volte le detesta, ha un corpo poco formoso, lo sente sempre bambino, piatto, liscio, privo di curve e poco ammaliante. Lo usa soprattutto per aggredire, è un corpo di nervi, di pugni, di calci e di forza nascosta. Ha delle proprietà imprevedibili.
La casa è dove le cose cadono a terra.
Il romanzo è percorso da una vena sottile, che in alcuni tratti esplode, di rabbia. Una violenza intrinseca al personaggio che appare innocente, che si trasforma da vittima in carnefice, retaggio della tradizione letteraria dei “Cannibali”. Come si spiega questo desiderio di esplodere, questa fame che spinge i personaggi a volere sempre di più anche a costo di un cinico darwinismo sociale?
Se devo essere sincera non ho mai letto i libri dei “Cannibali”, anche se so che hanno un ruolo molto importante nella nostra narrativa, quindi retaggio nel mio caso no, probabilmente più una continuità di interessi in alcuni temi, immagino. Nel caso di Gaia la rabbia è legata molto al rapporto con la madre, alla condizione economica famigliare, agli ambienti con cui viene a contatto, ai giudizi degli altri, alla mancanza di sicurezza e di sguardo su se stessa e il futuro, alla consapevolezza di poter ottenere ascolto e rispetto solo agendo per esplosioni e mai per progetti e per decisioni ponderate.
Io sono stata un cigno, mi hanno portata da fuori, mi sono voluta accomodare a forza, e poi ho molestato, scalciato e fatto bagarre anche contro chi s’avvicinava con il suo tozzo di pane duro, la sua elemosina d’amore.
Teresa Ciabatti è stata una delle prime a notare che ci troviamo di fronte a «una nuova generazione di narratori e di narratrici incredibili. Jonathan Bazzi, Giacomo Mazzariol, Mattia Insolia, Fuani Marino, Josephine Yole Signorelli, Giulia Caminito. Sono persone che hanno fatto fare un passo avanti non solo alla letteratura, ma anche alla società, all’Italia». Ti senti parte di un gruppo omogeneo e compatto o vedi di fronte a te tante voci diverse senza un punto di contatto?
In questi anni ho letto tanta narrativa sotto i 35 anni per alcune cose di cui mi occupo e penso che ci sia tanta varietà di sguardi, di linguaggi, di temi, di approcci alla scrittura. Trovo molta freschezza nei miei coetanei, molta voglia di cercare la propria dimensione peculiare. Mi vengono in mente per esempio la fusione di scienza e letteratura nei libri di Elisa Casseri o il lavoro sull’esoterismo e la storia delle città di Matteo Trevisani, oppure la riscrittura del distopico e dell’horror di Luciano Funetta. Tanti modi molto diversi. Tra i nomi citati, per quanto riguarda questo romanzo, sicuramente lo vedo bene vicino a Febbre o a Gli affamati perché ci sono alcuni temi, sguardi simili, sulle famiglie, sulla periferia, sulla rabbia e la formazione dell’identità.
Una generazione che rompe gli schemi, ma si inserisce nella tradizione consolidata del romanzo di formazione italiano. Qual è l’elemento che emancipa questa nuova generazione di scrittori rispetto alla precedente tradizione del Bildungsroman?
In realtà non mi sembra che il romanzo di formazione sia per tutti e in maniera dominante il riferimento letterario della nostra generazione. Posso però dirti che nel mio romanzo ho cercato di giocare con questo modello e riferimento riscrivendolo secondo le logiche del presente, della mancata ascensione sociale, del precariato individuale e famigliare, della difficoltà abitativa, degli ardui traguardi lavorativi e della retrocessione degli ideali.
Se ti dico Premio Strega, qual è il primo autore, il primo libro a cui pensi e perché? Come hai vissuto la notizia di essere entrata nella dozzina?
Penso a Laudomia Bonanni perché è la prima autrice del nostro Novecento, purtroppo poco nota, da cui è partita la mia ricerca sulle scrittrici dimenticate. Bonanni partecipò varie volte al Premio, ma soprattutto venne scelta dai coniugi Bellonci per l’unico Premio inedito che organizzarono, e così una insegnante aquilana si ritrovò catapultata nella vita dei salotti romani del dopoguerra.
Per la dozzina sono ovviamente felice!
Ringrazio Giulia per la disponibilità.