L’ultimo Allen è un conciliante inno alla vita
Ci sono film che ci fanno sognare, ridere, spaventare, riflettere, arrabbiare e annoiare, poi ci sono quelli che ci fanno riconciliare con noi stessi e con il mondo. Rifkin’s Festival è uno di questi, una sorta di seduta di psicanalisi che senza traumi ci fa uscire dalla sala migliori di quando siamo entrati. Un inno alla vita che invita a metterci in gioco qualunque sia la nostra età, una sorta di feel good movie ma anche un’emozionante ed appassionata lezione di storia di cinema. Stiamo parlando dell’ennesimo film di Woody Allen con protagonista un ebreo in crisi di coppia che si pone domande sul senso della vita, eppure c’è qualcosa di nuovo, una sorta di tenerezza e indulgenza inedita per l’autore newyorchese, come se anche lui, a ottancinque anni, avesse finalmente fatto pace con sé stesso. Non c’è più spazio per protagonisti nevrotici, verbosi e litigiosi che hanno caratterizzato molti film del regista: è come se il mantello dell’età avesse coperto e addolcito quei tratti per offrirci un alter-ego più maturo, malinconico e pacato col quale non possiamo non simpatizzare. E il discorso vale per tutti i personaggi: mancano le note acide o critiche nei confronti dei personaggi negativi poiché così negativi in fondo non sono, come se l’autore fosse diventato d’un tratto più indulgente nei confronti delle umane viltà e come se a questo punto della sua vita volesse soltanto abbracciare l’umanità intera, con pregi e difetti, e quando deride lo fa in modo giocoso, senza sbeffeggiare.
Fra rassicuranti dejà-vu e trovate brillanti
Rifkin, il protagonista della commedia, è infatti un ebreo newyorchese sul viale del tramonto, sposato a una donna più giovane e bellissima che accompagna in Spagna al Festival del cinema di San Sebastian. Durante i giorni della rassegna l’uomo ripensa alla sua vita e trova la forza per fare pace con sé stesso e accettare il passato, il presente e affrontare così con ottimismo il futuro. È c’è una sua battuta che vale la pena trascrivere. “È stupefacente quante poche persone in realtà si prendano il tempo di frenare la corsa e cerchino di imparare cosa vogliono e chi sono veramente e non chi credono di dover essere”. Parole che ci rimangono dentro, che non si cancellano e che ci fanno pensare. Non mancano battute al vetriolo su ebrei e cristiani, isrealiani e palestinesi e sul cinema, perché in questo film c’è tanto cinema, citato e mostrato. Rifkin è infatti un ex insegnante di cinema in pensione che non ama il cinema del presente e nel corso del soggiorno in Spagna ripensa o sogna gli spezzoni dei film che più ha amato: Quarto potere, 8½, Jules e Jim, Un uomo, una donna, Fino all’ultimo respiro, L’angelo sterminatore, Persona, Il settimo sigillo e qui scocca l’idea, semplice quanto riuscitissima e avvincente: Allen ripropone delle scene iconiche di questi film (tutte in bianco e nero, come nei film originali) e le fa interpretare ai propri attori adeguandole al mondo di Rifkin. Questa carrellata, oltre a conquistare e commuovere gli appassionati di cinema, si rivela talmente simpatica e divertente che viene da domandarsi come sia possibile che Allen non l’abbia fatto prima. Per gli interpreti, inutile dirlo, deve essere stata un’occasione e un’emozione irripetibili reinterpretare queste iconiche scene che ogni amante e studioso del cinema conosce e spesso ama.
Attori in stato di grazia e location da incorniciare
Arriviamo così agli attori: pochi sono rimasti quelli disponibili a lavorare con Woody Allen e sono lontani i tempi in cui si faceva a gara per comparire nei suoi film in quanto garanzia di Oscar. Allen prende quel che c’è, detta come va detta e come al solito tira fuori il meglio dai propri attori. Come alter-ego e protagonista si affida a un interprete che gli deve molto, quel Wallace Shawn che esordì nel 1979 proprio in Manhattan e comparve più volte nei film di Allen (Radio Days, Ombre e nebbia, La maledizione dello scorpione di Giada, Melinda e Melinda). Ma la vera sorpresa è Gina Gershon, nei panni della moglie di Rifkin, non solo ancora bellissima, ma anche capace di un’ottima prova brillante e drammatica. La Gershon insomma deve essere eternamente grata ad Allen per quest’occasione e speriamo dunque di non sentirla un giorno pentirsi di aver lavorato con Allen, come già fatto da tutte le sue illustri colleghe hollywoodiane. C’è poi un gustoso quanto fugace cameo di Christoph Waltz nei panni del diavolo de Il settimo sigillo. E lui è l’unico attore mainstream presente, anche se dobbiamo ricordarci che Waltz è un attore austriaco e dunque europeo, come europeo è l’unico produttore che abbia accettato di finanziare questo progetto dopo l’addio di Amazon. Anche tutti gli altri attori sono europei: dal francese Louis Garrel (L’ufficiale e la spia, The Dreamers) che interpreta il divertente ruolo di un regista piacione e piacente, mentre la spagnola Elena Anaya (La pelle che abito) è la donna di cui s’invaghisce Rifkin. Come tutti i film alleniani girati in Europa la pellicola è anche un omaggio alla città che ospita le riprese, in questo caso la bellissima San Sebastian, che ringrazia per il lungo spot e impreziosisce ulteriormente una pellicola già molto invitante dal punto di vista visivo grazie alle sequenze in bianco e nero. Siete mai tornati in un ristorante con l’intenzione di gustarvi nuovamente un piatto che avevate tanto amato? Oppure siete di quelli che avete deciso di dare a quel ristorante un’altra chance dopo un’esperienza deludente? Ecco l’ultimo film di Woody Allen è questo, capace di riconciliare vecchi fan e detrattori. Per i primi sarà un piacere ritrovarsi in un territorio familiare e accogliente in cui il regista propone tutti i suoi cliché con grande classe, consapevolezza e piacevolezza. I detrattori di lunga data rimarranno invece sorpresi dalla simpatia e piacevolezza dei personaggi e della trama, nonché dal messaggio. A questo punto della sua carriera e della sua vita, era davvero difficile immaginare e desiderare un film migliore.