Perché leggere Samanta Schweblin
Si scrive Samanta Schweblin, si legge: autrice che riesce a mantenere un livello qualitativo impressionante, dal racconto breve al romanzo.
Tra le varie lezioni più o meno utili che accomunano le scuole di scrittura, si insegna che l’autore di un romanzo dovrebbe (col linguaggio) combattere il lettore su di un ipotetico ring durante tutte le riprese, mentre l’autore di un racconto dovrebbe puntare al ko. Samanta Schweblin invece appartiene all’élite di quelli autori che soppesano ogni parola, impegnati a ricercare nel linguaggio tutte le sfumature che stanno alla base delle nostre relazioni.
Tralasciando al momento le sue due raccolte di racconti – raccolte destinate a entrare nella categoria “Fondamentali” –, con Distanza di sicurezza e Kentuki, entrambe le pubblicazioni edite dalla SUR (lungo applauso a chi in redazione si impegna a promuovere e tradurre autrici del calibro della Schweblin: grazie, davvero) ci troviamo di fronte a romanzi che evidenziano quanto ancora la letteratura sia lontana dall’estinguere la fiamma dello stupore.
Distanza di sicurezza
Con Distanza di sicurezza (2020, SUR, traduzione di Roberta Bovaia), l’autrice in un centinaio di pagine ci racconta una storia impossibile, un dialogo tra una madre costretta in un letto d’ospedale e un surrogato di bambino. Lei ripercorre a parole gli ultimi tempi, prima dell’ospedale, cercando informazioni sulla figlia. Fin qua: tutto bene. Ma sono sufficienti poche pagine per comprendere che la scrittura di Samanta Schweblin è uno stargate puntato sull’altrove, su un genere letterario ancora da esplorare e codificare.
La distanza di sicurezza che intende la madre è una sorta di cordone ombelicale invisibile che trattiene lei alla figlia. Un filo che sì unisce, ma con la solo forza dell’illusione, in quanto col proseguire delle pagine affiora la consapevolezza – alla madre così come al lettore – di non essere padroni di nulla. Le cose accadono, punto. Il dialogo tra la madre e il bambino diviene quindi un continuo aggiungere dettagli, strati su strati di ossessioni e mancanze e inquietudine strisciante.
La chiamo “Distanza di sicurezza”, così definisco la distanza variabile che mi separa da mia figlia, e passo metà del tempo a calcolarla, anche se poi rischio sempre più del dovuto. (pag. 19)
Mentre pago, Nina si allontana. È da qualche parte alle mie spalle, si muove tra le file di elettrodomestici e gli articoli da giardino, non la vedo ma sento il filo tirare e potrei dire facilmente dove si trova (pag. 36)
Nulla è ciò che sembrava, a parte il livello eccelso nella scrittura dell’autrice: non si trova una pagina sottotono, come se le parole appena lette sparissero per formarne altre altrettanto potenti nella pagina successiva. Una lettura spettacolare, insomma.
Kentuki
Altro giro, altro gettone. Kentuki (2019, SUR, traduzione di Maria Nicola). Qui il discorso si fa più complesso. Aumentano le voci narranti, i luoghi, le tematiche. Aumentano, ma così come in Distanza di sicurezza sono legate a un filo: l’incapacità di lettura, intesa come incapacità di comprensione del proprio essere e dell’animo altrui. In Kentuki le varie storie narrate – tutte unite, appunto, da un filo conduttore – ci portano in un ipotetico domani, dove il pianeta si sta abituando alla moda dei Kentuki, deliziosi peluche meccanici surrogati degli animali domestici. In questo caso però si può avere un Kentuki, oppure essere un Kentuki. Perché sì, dall’altra parte, all’interno del peluche, esiste un utente anonimo connesso da chissà dove. Avere significa quindi mostrare, essere diventa osservare: bontà e marcescenza si mescolano al ritmo di ogni nuova connessione, tenerezza e voyeurismo diventano sinonimi. Essere e Avere sublimano in un corpo riempito di nulla, e ci ritroviamo a leggere le vicissitudini di vari protagonisti sparsi per il mondo, tutti inconsapevolmente portatori di un vuoto grande più un peluche. Kentuki è un’ode alla vita, ci insegna l’utilità intrinseca delle storture che abitano il nostro essere.
Una scrittrice pericolosa
L’autrice, con le sue opere, dona una dimensione nuova a quell’aggettivo prezzemolo utilizzato sempre più a casaccio nella letteratura attuale: disturbante. Nel ricreare l’immaginario col linguaggio, sembra portarci in luoghi che riconosciamo solo in un secondo momento come casa nostra, e una volta scoperto il tranello le parole dell’autrice acquistano un ulteriore livello: non sono indirizzate a noi in quanto lettori, ma sono indirizzate a noi in quanto l’autrice è la nostra tramite, intima confidente di quell’inconscio che raramente ci rivolge la parola. Insomma: Samanta Schweblin ci conosce, e di fatto la rende una scrittrice pericolosa.
Si scrive Samanta Schweblin, si legge: scrittrice argentina che invece di giocare sul semplice proponendo racconti e romanzi intrisi di realismo magico – allo stato attuale, uno scrittore sudamericano che propone opere al netto del realismo magico è raro quanto uno scrittore italiano che non tratta di Commissari o saghe famigliari – disvela paure che ignoravamo, ma che erano latenti in noi in quanto esseri umani.
Samanta Schweblin è un dono per la letteratura, il suo stile di scrittura è in grado di catapultarci all’interno di altre prospettive in forma totalizzante come raramente accade: ricordate Tom Robbins? Con Distanza di sicurezza e Kentuki (e senza considerare i racconti, spazio nel quale l’autrice alza ulteriormente l’asticella dell’impossibile) per la prima volta le domande che accompagnano la lettura mettono in discussione non l’autore ma chi sta dall’altra parte della storia: leggendo ci si domanda Ok, ma per comprendere queste storie io che lettore sono nei confronti dei legami, del linguaggio? Acerbo, marcio, maturo?
Nel dubbio: leggiamo Samanta Schweblin. È cosa buona e giusta.
Luca Pegoraro