Philip Seymour Hoffman: ritratto di un attore fuori dal comune
“Io sono uno scrittore, un medico, un fisico nucleare e un filosofo teoretico, ma prima di tutto sono un uomo, proprio come te”
The Master, Paul Thomas Anderson
Il mondo dello spettacolo è popolato da diverse tipologie di interpreti: ci sono quelli che si basano esclusivamente sull’emotività, dei cavalli di razza, dei purosangue che colgono l’attimo di magia davanti alla macchina da presa. Oppure quelli che sono legati alla tecnica, alla recitazione più artigianale, fatta di sudore, movimenti, continue prove e ripetizioni: in poche parole, quelli che si nutrono di una ferrea disciplina imparata a teatro.
Pochi però sono in grado di far coincidere il talento puro con la tecnica, riuscendo a donare la propria interiorità senza nessuna barriera, e questi sono gli attori migliori che si possano vedere su uno schermo o su un palco. Philip Seymour Hoffman apparteneva di diritto a quest’ultima categoria.
L’inizio di una carriera scintillante
Per analizzare una filmografia così importante e così vasta occorre cominciare, naturalmente, dalle origini, con l’ingresso nel 1985 alla University’s Tisch School of the Arts, Hoffman studia teatro e muove i primi passi sui palchi della Grande Mela, creando una compagnia con alcuni ex compagni di corso, recitando soprattutto testi di repertorio.
Questi sono gli anni delle prime soddisfazioni, ma anche il periodo in cui il giovane Philip inizia ad avere problemi con le sostanze. Il consumo di alcool infatti diventa sempre più massiccio, tanto da fargli intraprendere un percorso di disintossicazione, a seguito del quale riprende in mano le redini della sua vita gettandosi a capofitto nel lavoro.
Iniziano così, negli anni novanta, le prime interpretazioni di rilievo in alcuni film come Scent of a Woman in particolare, e successivamente in Getaway, remake nettamente inferiore al capolavoro originale di Sam Peckinpah del 1972.
Arrivano poi le collaborazioni con i grandi registi come i fratelli Coen, per i quali Hoffman prende parte a uno dei film più celebri di sempre, Il grande Lebowski, lavorando anche nello stesso periodo con un cineasta forse meno conosciuto ma altrettanto importante: è Todd Solondz, che lo volle per il suo Happines che sconvose il festival di Cannes del 1998. Un film che demolisce completamente il perbenismo della medio borghesia americana, raccontando la storia dei Mapelwood, una famiglia in apparenza perfetta (padre psicologo, madre casalinga) che però nasconde, dietro a quella patina di perfezione scintillante e stucchevole, i più ineffabili orrori. Sullo sfondo, una galleria di personaggi disagiati che ruotano attorno al nucleo famigliare e che, per un motivo o per l’altro, entrano in contatto con i coniugi Mapelwood.
Un’opera in cui Philip Seymour Hoffman delinea un personaggio insicuro, sessualmente frustrato, depresso e segretamente innamorato della sua attraente vicina di casa, a cui confessa le proprie fantasie erotiche dietro l’apparecchio telefonico e sotto falsa identità. Il film ottiene un grande successo soprattutto tra i cinefili e consacra l’attore newyorkese come uno degli interpreti più importanti del cinema d’autore statunitense.
Un attore in ascesa
L’attività davanti alla macchina da presa diventa sempre più intensa, ma è comunque affiancata a una ricca carriera teatrale che, anche dopo essere diventato un divo di Hollywood, Hoffman non ha mai abbandonato, prendendo parte a importanti spettacoli in veste di attore ma anche di regista: classici come Il gabbiano di Cechov, Otello di Shakespeare oppure drammaturgie originali di Sam Shepard, interpretazioni che gli hanno fruttato varie candidature ai Tony Award, gli Oscar del teatro.
Un artista versatile dunque, capace di vestire i panni dell’amico goffo e mattacchione di Ben Stiller in Alla fine arriva Polly e dell’insegnate timido e impacciato de La 25° ora di Spike Lee, uno dei capolavori del regista afroamericano, e forse la pellicola più rappresentativa dell’America ferita e devastata dagli attacchi terroristici dell’undici settembre. Un film intimista, magistralmente diretto, cupo, con una fotografia in alcuni momenti volutamente sovraesposta che incornicia i volti di un grandissimo cast, che ha come protagonista Edward Norton.
Ci sono poi i grandissimi ruoli, su tutti quello dello scrittore Truman Capote, la performance che gli ha fatto guadagnare l’Oscar come migliore attore protagonista, rendendolo un attore richiestissimo, anche in pellicole con un taglio più commerciale come Mission: Impossible III.
Negli stessi anni interpreta Caden Cotard, l’alienato regista teatrale di Synecdoche, New York, scritto e diretto dallo sceneggiatore Charlie Kaufman. Ma una delle interpretazioni più importanti rimane quella di Andy Hanson, coprotagonista di Onora il padre e la madre, ultimo film di Sydney Lumet, uno dei più grandi maestri del cinema americano. Un noir ultramoderno che racconta la storia di due fratelli che per problemi economici decidono di compiere una rapina nella gioielleria dei genitori.
Il film rappresenta una tragedia famigliare, ed è una riflessione cupa e spietata sul rapporto tra uomo e denaro e, soprattutto, sul potere dei soldi all’interno di una società piena di contraddizioni, una storia violenta e devastante in cui Hoffman interpreta un personaggio demoniaco, cinico, disperato e indimenticabile.
Il rapporto con Paul Thomas Anderson
La carriera di questo interprete è indissolubilmente legata ad un altro grandissimo regista, che come Quentin Tarantino, suo grande amico, è riuscito a cambiare il volto della cinematografia statunitense contemporanea, affermandosi come uno degli autori più importanti del cinema moderno : Paul Thomas Anderson.
Il maestro californiano è sicuramente il cineasta con il quale Hoffman ha collaborato di più, colui che meglio ha saputo indirizzare il talento sconfinato dell’attore.
Un sodalizio iniziato con il primo film di Anderson, Sydney, che poi è continuato nel tempo, regalando al pubblico interpretazioni meravigliose come quella del dolcissimo Scotty J. in Boogie Nights – L’altra Hollywood, film in cui il regista affronta il mondo della cinematografia hard a cavallo fra gli anni ’70 e ’80, prima dell’avvento della videocassetta. Si passa poi alla performance dell’infermiere Phil Parma nel capolavoro corale Magnolia e successivamente a ruoli divertenti come il truffatore di Ubriaco d’amore, una commedia con Adam Sandler che ha fatto vincere il premio per la migliore regia a Anderson al Festival di Cannes del 2002. Si approda infine, a quello che da molti, giustamente, è considerato uno dei ruoli più importanti: Lancaster Dodd, il carismatico leader e guida spirituale in The Master, per il quale Hoffman è stato premiato a Venezia con la Coppa Volpi al miglior attore assieme a Joaquin Phoenix.
In questo film il grande interprete riesce a far emergere la propria tecnica teatrale nell’accuratezza dei movimenti, nelle pose e nel tono della voce, unite a una potenza espressiva sbalorditiva.
Una grande lezione, quella imparata dal suo amico fraterno Paul Thomas Anderson, tanto importane da permettergli di maturare la consapevolezza necessaria per dirigere un film come il delicato Jack Goes Boating in cui Hoffman è anche attore protagonista, ma che non risulta essere troppo apprezzata dalla critica.
I grandi attori sanno che l’unione fa la forza, sanno che lo scambio reciproco di energie crea qualcosa di unico, per questo Philip ripeteva:
“E’ importante ricordare che gli attori non possono recitare da soli, è impossibile. Ciò che dobbiamo fare è supportarci a vicenda”.
Non è un caso quindi che le più grandi interpretazioni di magnifici attori come Joaquin Phoenix in The Master e Ethan Hawk in Onora il padre e la madre siano così potenti e magnetiche.
L’abilità di Hoffman nell’accompagnare e nel supportare attraverso il proprio talento i colleghi, risulta essere determinante, e va di pari passo con la sua capacità di trasformazione, abilità che è riuscito a mettere a disposizione di una corporatura robusta, in apparenza limitante, ma che poi si è rivelata una delle tante armi che l’attore ha saputo utilizzare in un percorso variegato.
Una carriera in cui ha dato tutto quello che poteva dare, entrando completamente tra le righe della storia, penetrando in ogni dettaglio della sceneggiatura, regalando al pubblico tutta la sua energia e la sua fragilità, la stessa che poi lo ha portato a perdere il controllo della sua vita e a precipitare nuovamente nel terrificante tunnel della tossicodipendenza, nel 2013.
Per accettare la scomparsa di questo grande artista, occorre anche comprendere la possibilità che spesso, a tanto talento corrisponda anche la stessa quantità di disagio.
Truman Capote, personaggio attraverso il quale Hoffman, è diventato uno degli attori più importanti di Hollywood, diceva che quando “Dio ti dona il talento ti consegna anche una frusta con la quale flagellarti”. Forse tutta quella grinta, quell’emotività, quella bravura capace di rendere folgoranti non solo le interpretazioni di Hoffman, ma anche quelle di tutti gli altri attori al suo fianco, nel privato si trasformavano in qualcosa di diverso, qualcosa di oscuro, inafferrabile e totalmente distruttivo.
Un male che lo ha allontanato dalla compagna di una vita, la costumista e scenografa Mimi O’Donnell, conosciuta durante la lavorazione di uno spettacolo teatrale, madre dei suoi tre figli.
Pare infatti che lei abbia cercato in tutti i modi di aiutarlo a risolvere i suoi problemi con la droga, diventanti sempre più evidenti, senza però riuscirci, tanto da portarla a troncare la loro relazione nel 2013.
L’addio quel giorno di febbraio
La scomparsa di Hoffman ha fatto riaprire un dibattito che sembrava ormai lontano: quello sulla dipendenza dall’eroina, la droga più devastante, che da qualche anno sembra sia ritornata a inondare le strade delle grandi metropoli, soprattutto New York, città natale dell’artista.
Mi ricordo bene quella sera di febbraio del 2014: la notizia letta sul web, poi purtroppo la conferma. Quella sera ho pianto lacrime sincere sapendo che quel filo che si era creato fra noi si era spezzato. Mi sentivo come se avessi perso un grande amico e mai mi sarei aspettato una cosa del genere, dopo averlo visto un paio di anni prima a Venezia, sul tappeto rosso, un momento in cui sembrava in splendida forma, con i suoi sorrisi, la sua mole e la sua affabilità.
È stata una perdita che ha sconvolto il mondo del cinema e soprattutto il mondo degli spettatori, che ancora oggi ricordano questo straordinario attore capace di creare con il pubblico un rapporto intimo, sincero, un legame che si è rafforzato film dopo film, che ancora oggi, a sei anni dalla sua scomparsa, rimane intatto, così come rimangono intatti i film in cui ha recitato, le opere attraverso cui tutti noi possiamo colmare la voragine che il grandissimo Philip Seymour Hoffman ha lasciato nel mondo.
Rimangono intatti i personaggi fuori dal comune da lui interpretati, che costituiscono l’antidoto che Philip usava per combattere un dramma esistenziale capace di devastare la sua vita. Un disagio che forse traspariva in alcune interviste attraverso il suo sguardo languido e disperato, momenti nei quali, da grandissimo attore, riusciva a nascondere il suo dolore affogandolo in quella risata sardonica, raschiata e contagiosa, che continua a mancarci terribilmente.
Jacopo Zonca
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