Figurazioni. Su “Ipotesi di felicità” di Alberto Pellegatta

In Ipotesi di felicità (Mondadori, 2017) Alberto Pellegatta costruisce uno studio obliquo della vita, tarato cioè su quelle che sono alcune delle componenti essenziali della poesia: lo spostamento del linguaggio e la capacità d’immaginazione. Tramite un verso calibrato e lento, la scrittura assume così il ruolo di un viatico che dallo stretto quotidiano apre a forme e creature inconsuete, irreali, possibili risposte agli sforzi di una deduzione della felicità.

Dispositio

Partirei da alcune osservazioni sullo stile. La poesia di Ipotesi si contraddistingue innanzitutto per una forte impronta paratattica: la maggior parte dei testi coincide infatti con un discorso che procede per step, per tasselli ben scanditi, evidenziati dall’uso frequente del punto. Questa operazione di divisione in particelle (la frase – presa come unità fondamentale – di solito copre un arco di due o tre versi) si applica poi a testi anche molto diversi fra loro, dalla forma breve ed epigrammatica (come Finocchio) alle prose che compongono la sezione Zoologiche. Invariata, o comunque prediletta, è l’idea di testo come somma di (e relazione tra) elementi più circoscritti, subatomici.

È già da questa strutturazione che può scorgersi la (o una) ragione fondamentale del libro, che riguarda la realtà della poesia come tecnica di immaginazione e conoscenza “spostata”. Se passiamo dalla dispositio delle “particelle” alla loro struttura interna, scopriamo infatti anche lì alcuni moduli ricorrenti: troviamo l’attestazione di una condizione o regola («Non pioveva da mesi quando ho iniziato a scrivere», «Oltre il quinto piano la «e» si pronuncia più aperta»), nonché di un’esistenza/qualità, soprattutto nel caso delle prose («La famiglia delle antilopi si divide in una dozzina di specie», «Calamari irragionevoli agitano i loro tentacoli nella sua testa»), oppure allocuzioni e/o imperativi («Scrivimi indietro», «Osserva quale spavento struttura il paesaggio»).

In ogni caso assistiamo a un’operazione che non mira tanto alla generazione di un flusso, bensì alla costituzione di elementi conchiusi che collaborano per affiancamento, apposizione, costruiscono un discorso che tenta di fissare degli elementi e fabbricare un puzzle più che una storia.

Figure

Viene a questo punto da chiedersi quale materia attrae e manipola lo schema che si è ora tracciato a proposito dello stile. La formula con cui Mary Barbara Tolusso condensa la poesia di Pellegatta, «surrealtà e disincanto»[1], mi sembra decisamente efficace: le due forze (tematiche) sottese all’operazione di Ipotesi di felicità sono senza dubbio una tendenza al surreale, all’immaginazione, alla metafora, e, per controparte, una normalizzazione costante dell’elemento immaginifico, una sua assunzione senza epica e senza sbalordimento che si risolve in un incrollabile distacco dalla materia trattata, in – appunto – un disincanto.

Il lavoro di normalizzazione è reso soprattutto dalla forte presenza della sfera quotidiana, che è del resto la sfera dei piccoli scarti, di una tragedia a fondo metabolizzata: «Il dolore esce oleoso dal rubinetto chiuso male», «Mentre ti lavi / scrivo una poesia», «Per scrivere un numero sufficiente di versi / bisogna essere stati nervosi molti giorni / in ulcerata gioia». Ecco, «in ulcerata gioia»: la poesia come cisti e alterazione sottile di uno stato, che coinvolge una sfera “attesa”, amica del lettore (quella del quotidiano, appunto) e un’energia aliena che la attraversa. Un’energia che riguarda soprattutto la presenza dell’animale e del surreale.

Contrariamente a quanto farebbe pensare il titolo, Zoologiche non è l’unica sezione a raccogliere l’“invasione” delle creature, che percorre invece il libro nella sua interezza. Giusto per fare degli esempi, troviamo «pesci», «gatte» e «rondini» entro le prime quattro poesie, e «gatto», «bruco», «pascolo», «animaletti», «piccioni», «tigre» entro le ultime quattro. In questo variegato bestiario, sono tuttavia le creature fantasiose (queste sì, soprattutto in Zoologiche) a fornirci un grimaldello prezioso per entrare nel cosmo pellegattiano: il «leucocrota», L’Uomo-rana, «l’uomo-orso», nonché un animale di cui «non conosciamo il nome». Del resto anche gli animali “reali” sono messi in relazione con qualcosa di astratto, con qualcosa che ha a che fare con l’intelletto, l’estetica e/o la civiltà, dunque con qualcosa di decisamente anti-ferino: i «pesci […] seguono i loro alibi», l’«uomo-orso» «si mette alla ricerca di una discoteca», i «calamari» sono «irragionevoli», le «lumache […] ospitano un parassita letale, l’analogia», l’alce «ha gli stessi gusti delle capre e degli avanguardisti». Da questi aspetti si capisce quindi come al poeta non interessi l’animale in quanto carne, belva, corpo, bensì in quanto figura, simbolo; come dispositivo metaforico che proprio nelle forme ibridate (gli uomini-animali) trova il massimo della sua risoluzione.

Deduzione e immaginazione

Ci ritroviamo allora da una parte un’attrezzatura stilistica che predilige la giustapposizione, il ritratto breve, l’accostamento sobrio di enunciati che asseriscono e insieme aleggiano nell’assenza di una qualche verità non espressa («In questa poesia ti allacci le stringhe. // Il talento senza esperienza è malcostume, / capire è già una scelta / se hai qualcosa da nascondere. Senza rimedio / menzogna e metafora usano lo stesso dizionario»), dall’altra un’attrezzatura tematico-simbolica che opta per l’animale-figura, per il quotidiano come terreno della vita e per l’intreccio tra questi («Mentre ti lavi / scrivo una poesia. / Corpi che vogliono sudare / attutiscono le prospettive costiere. / Come aumentano i pallori sul terrazzo / quando raggiungono i loro scopi. // Il solito giro delle rondini nel patio / poi si separano, parole di un discorso / difficile.»).

Il lavoro della poesia diventa insomma l’esercizio dell’immaginazione, ancorato però a una spendibilità gnoseologica e pratica, lo strumento principe della deduzione di una felicità possibile. Ed è in questo senso che si spiega la ricorrenza frequente di elementi metapoetici («Non lavorare è la mia poesia più riuscita», «L’autore qui presente», «Dopo aver letto la prima poesia», «Non pioveva da mesi quando ho iniziato a scrivere»), a dimostrare che per quanto controllato, il libro si offre anche come cantiere aperto. Ipotesi, appunto, facoltà deduttiva e immaginativa di uno stadio migliore del presente: «Per questo le scariche, il trauma, non per ritrovare / l’equilibrio, non per formare piazze o tendenze / ma per disobbedire alla natura, che poco a poco / diventi libertà.»

Antonio Francesco Perozzi


[1] http://albertopellegatta.blogspot.com/2017/06/rassegna-stampa.html?m=1

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