Bosch, o del dipingere un mistero
È molto difficile oggi parlare di arte, segnare un confine preciso tra cosa può in tal modo essere definito e cosa invece non lo è, e ancora più difficile ci risulta interpretarla.
La volontà di costruire un senso è un’attitudine umana da sempre esistente, che in qualche modo ci identifica; possiamo tranquillamente definirci come decifratori di segni e simboli.
È soprattutto di fronte all’arte contemporanea che il nostro spirito di creature razionali entra in crisi, giacché spesso non ci sembra di coglierne il senso. Ma, come ogni prodotto umano, anche – prendiamo un esempio che si presta bene al nostro discorso – la tela bianca di Pietro Manzoni ha una sua spiegazione (uso questo termine con molta cautela, ricordando pur sempre l’importanza della fruizione da parte dello “spettatore” di ogni opera) se inquadrata in un determinato contesto. Avvicinandoci all’arte, quindi, potremmo distinguere tra un senso attribuito dal soggetto, che gioca molto e che, a mio parere, dovrebbe essere il senso ultimo e fondamentale delle arti visive, e uno intrinseco che ha lasciato lì, nascosto in un angolo, il suo creatore.
La crisi radicale dell’uomo – e dell’universo che lo circonda – superato il confine del secondo conflitto mondiale ha generalmente trovato espressione in opere che potremmo definire intimiste. L’abbandono di un’arte prettamente figurativa ha aperto le porte a una nuova era, dove gli angoli della tela diventano un confine troppo stretto per poter esprimersi.
Tuttavia, anche durante quei periodi della storia dell’arte che potremmo
definire cristallini, è stato possibile incontrare alcune personalità fuori dagli schemi. Una di queste è sicuramente il pittore olandese Jeroen Anthoniszoon van Aken, meglio conosciuto come Bosh (1450 circa – 1516 circa).
Della sua vicenda biografica ci sono giunte poche notizie; sappiamo che visse nella piccola cittadina di ‘s Hortogenbosh (da qui il suo pseudonimo), crebbe in una famiglia di pittori e sposò una gentildonna patrizia, grazie alla quale riuscì a migliorare la sua posizione sociale – cosa che gli permise di vivere senza curarsi di commissioni e vendite di opere, e di vivere esclusivamente pensando alla pittura in sé, e questo, forse influenzerà molto il suo stile, per nulla aderente ai canoni del tempo. Ma, nonostante le sue opere siano caratterizzate da una certa bizzarria nei temi e nei soggetti, egli era dotato di una particolare bravura tecnica, ricordato – insieme a molti altri colleghi fiamminghi – come uno dei più grandi utilizzatori della tecnica a olio.
Perfezione tecnica e mistero, questo contraddistingue la pittura del Bosch: sono tantissimi i soggetti di difficile interpretazione che appaiono sulla tela; su sfondi realistici si stagliano immagini inquietanti di demoni, esseri antropomorfi e zoomorfi, oggetti con forte valenza di simboli. Tra questi, un particolare posto occupano gli strumenti musicali. La loro presenza salta all’occhio in particolar modo nel Trittico del Carro di fieno ma soprattutto nel Trittico del Giardino delle Delizie. Qui l’inferno è rappresentato proprio come Inferno Musicale, dove in contrapposizione con il suo suono dolce, l’arpa diventa uno strumento di crocifissione per un uomo che appare di spalle legato allo strumento. Proprio il Trittico delle Delizie (datato tra il 1500-1505) può portarci a notare qualcosa di caratteristico di tutta l’opera dell’artista, ricca di elementi oscuri: il tema dell’opera è qui biblico (da sinistra verso destra il trittico è composto da: Il giardino dell’Eden, Il giardino delle Delizie, L’inferno musicale) e in pieno Rinascimento Bosch decide di tingere di tinte fosche la sua arte; non è semplice comprendere il ricco universo creato dall’artista ma, quello che possiamo percepire, anche con un semplice sguardo, è che dalla luce, dai valori positivi che pervadevano l’uomo e la fede del Cinquecento, sembra essere ricaduti nelle tenebre del Medioevo, o di aver fatto un balzo in avanti, verso le pitture surrealiste di un pittore come Max Ernst (1891-1976).
Moltissime sono le teorie, ipotesi, interpretazioni dell’immenso universo grottesco di Bosh, che, di riflesso, richiama alla mia mente gli altrettanto numerosi tentativi di decifrare le allegorie dantesche della Divina Commedia. Un poeta come Eugenio Montale, di fronte all’opera capitale della nostra letteratura scriveva nel 1965:
“[…] Dante non è un poeta moderno (fatto ben noto anche ai critici e filosofi moderni) e che gli strumenti della cultura moderna non sono i più adatti a comprenderlo (fatto invece negato dai moderni filosofi che si credono particolarmente autorizzati ad alzare il velo, ma da che parte? Dalla parte della moderna ragione dispiegata)”.
Questa considerazione, aggiunta all’importanza che Montale dava a una poca conoscenza della ideale biblioteca di Dante, del suo retroterra di conoscenze e sistemi di riferimento può portare a una riflessione analoga sulle simbologie di Bosch del quale, come per Dante, sappiamo poco di lui come uomo.
Per capire Bosch dovremmo essere Bosch; in quell’epoca, in quel momento, in quel sistema culturale; possiamo tentare di ricrearlo, ma dobbiamo, forse, prendere in considerazione l’idea che i nostri strumenti di decodifica non siano adatti, in quanto uomini di un’altra epoca. Infine, non dovremmo trascurare il fatto che quello che Bosch ha voluto dipingere è stato solo ed esclusivamente un mistero della sua anima; ci è stato fatto dono e non ci resta che arricchirlo del senso che possiamo attribuirgli in quanto uomini immersi nella storia, mondiale e personale.
Anna Giordano
Bellissimo articolo!
grazie mille Lorenzo!
Io non credo che ci si debba porre il problema di “capire” Bosch. Ovviamente è qualcosa che vorremmo raggiungere e non intendo dire che sia sbagliato tentare, ma che forse l’atteggiamento con cui approcciare Bosch dovrebbe essere quello di chi è disposto a lasciarsi suggestionare, piuttosto che quello di chi vuole comprendere. Bosch usa un linguaggio certamente molto personale, ma anche dotato di grande capacità espressiva. E questo perché è ad un pubblico che si rivolge ed è nelle fantasie di questo pubblico che vuole si realizzino i suoi scenari. Vuole impressionare.