Racconto: Pioggia di minuti – Giuseppe Midolo
Le parole le scendevano dalla lingua attraversandole i denti e scivolando alle mie orecchie come vernice dai barattoli. Aveva gli occhi verdi e la voce più tenue che avessi mai udito. Me ne innamorai di getto, pure se amavo già un’altra donna. Per dimenticarmene, avrei dovuto renderla muta.
Mi ero iscritto al corso di scrittura perché mia moglie sosteneva che avevo del talento. Obbiettare che chi ha talento non frequenta corsi non bastò a sbarazzarmene. Comprai un taccuino e mi sedetti all’ultimo banco per dormire meglio. Ma la sua voce mi venne addosso.
Leggeva e rileggeva accompagnandosi con le mani, a volte arricciava una ciocca di capelli o picchiettava la biro sulla cattedra. Non leggeva mai in piedi.
Forse mi piaceva anche quello che diceva oltre a come lo diceva. Macellava scrittori del calibro di Sartre e di Pasolini e nessuno storceva il naso né sbuffava. Aveva le idee chiare. Mi piaceva in una donna!
Nel fine settimana avremmo dovuto lavorare a tre pagine di racconto. Non diede nessun argomento. Fumavo e scrivevo e accartocciavo carte e rovesciavo pennarelli e bicchieri. Mia moglie mi incoraggiava: «Non si combina nulla di buono senza soffrire».
Arrivai in aula e consegnai i miei fogli. Puzzavo di posacenere pieno e non mettevo niente sotto ai denti da un mucchio di ore. Gli altri erano pettinati e con tutti i bottoni dentro le asole, non ressi e tornai a casa.
Poi lesse i nostri scritti ad alta voce, li commentò riducendoli in telegrammi. Qualcuno aveva azzeccato una o due frasi ben fatte. Per me erano tutti dei gran segaioli che si pisciavano sui piedi per i complimenti e che andavano in peristalsi quando li si contraddiceva. Poi lesse il mio di racconto e neanche me ne accorsi. Le mie parole nella sua bocca mi erano estranee. Il lavoro era buono, diceva, qualche incertezza aveva tradito il narratore, ma tutto sommato filava. Chiese di chi fosse e nessuno rispose. Nella gran fretta l’avevo lasciato anonimo e così rimase. Al termine della lezione sgattaiolai in macchina e restai immobile senza accenderla.
Lei picchiò sul finestrino e io lo abbassai.
Andammo al bar della scuola a bere un caffè. Parlò gran parte del tempo sempre dandomi del lei, e io ascoltavo, annuivo e mi schiarivo la gola. E nel frattempo la immaginavo a gambe divaricate sul lavello della cucina. Diceva ‘Tolstoj’ e io le toglievo le calze. ‘Decadentismo novecentesco’ e intanto facevamo il bagno nudi. Pagai i caffè ringraziandola del suo tempo e la lasciai seduta lì, con il racconto ancora anonimo in mano, accesi la macchina e corsi a casa da mia moglie.
Feci la doccia vergognandomi della mia erezione, poi misi il pigiama e andai a letto senza cena per punirmi. Mia moglie mi svegliò più tardi baciandomi il collo, la sua mano era oscenamente dentro le mie mutande. Non potevo fare l’amore con lei, sarebbe stato ingiusto e fuori luogo nei confronti dell’insegnante, ciononostante la baciai e rovesciai dentro il suo ventre le mie vacuità e diversi fiotti di sperma. Ero un infedele! Ma stavo tradendo soprattutto me stesso.
La sostituii a mia moglie… me la sposai per vedere dove saremmo andati ad abitare, se avessimo avuto dei figli – mia moglie non poteva – e le regalai una decappottabile rossa, e tutte le sere lei leggeva quello che io scrivevo, ai piedi del letto, sorseggiando una tisana, e poi si faceva l’amore. Iroso o dolce a secondo del mio stato d’animo. Ma era tutto spurio, andava bene fintanto che immaginavo il sesso in campeggio o nel cesso di un autogrill, ma appena finiva l’erotismo e lei mi parlava, le mie orecchie non sapevano ascoltare nient’altro che la mia voce bugiarda e svenevole. Mi facevo pena. In compenso sgravavo racconti come una slot machine.
Smisi di scrivere d’amore e di dare colore alle cose. Inscenavo una lite o un putiferio che finiva o in un frastuono di piatti rotti o in fendenti carnali. Le donne erano sempre due e l’uomo solo, perso, sfacciato, fedifrago e loro se lo contendevano. Tutti merce di scambio svalutata.
Ormai non li firmavo di proposito i racconti e lei correggeva le mie bozze con la sua dolce voce che rimbombava nell’aula. Le sue dritte erano:
Stringare le scene orgasmiche
Osservare dalla prospettiva della donna
Facilitare lo sguardo al lettore
Inserire lievi note romantiche
Dopo la lezione, lei bussava al mio finestrino e facevamo lunghe passeggiate e ogni volta i miei racconti mettevano a segno un punto avvicinandomi alla perfezione.
Un giorno, camminavamo da due ore, arrivammo al portone di casa sua e mi invitò a salire. A far che?, dissi. Ad osservare dalla prospettiva della donna, disse.
La baciai appena chiuse la porta, i fogli andarono a ramengo e non sapevo dove mettere le mani. La volevo tutta quanta, volevo nasarle i capelli, morderle le labbra, scorgere le areole chiare. Quando si sfilò il vestito le sue smagliature brillarono come denti di squalo e mi feci fare a brandelli.
Non avevo mai tradito mia moglie e non avevo visto altre donne nude negli ultimi quindici anni. Tutto quello che scrivevo lo inventavo: le portentose mosse, le scene selvagge di tavolini divelti e bottiglie in frantumi mentre i due innamorati spasimano prima di raggiungere l’orgasmo, e le grida, le fauci imbrigliate di bava e piene di ululati atroci… solo immaginazione.
Noi non si era fatto in tempo a raggiungere il letto e io già le ero venuto dentro in una pioggia di minuti. Lei non aveva aperto bocca per tutto il tempo.
Mi spinse fuori. Era iraconda e afona. Il mio seme da tempo disinnescato dalle ovaie di mia moglie m’aveva dato la sbadata certezza che fossi innocuo. Lessi il terrore in quei due occhi verdi e mi sentii un soldato che per abbattere il nemico spara neonati da un bazooka a corto raggio.
Scappò in bagno e io raccolsi il suo vestito con entrambe le mani, aspettandomi che fosse ancora lì dentro da qualche parte e che sarebbe balzata fuori come un coniglio dal cilindro per permettermi di riprovare ancora il numero di magia.
Ma non uscì. Gridava e piangeva e la sua voce era in mille pezzi e mi suggeriva di sparire il più lontano possibile e io lo feci. Mi resi sordo, per dimenticarmene.
Mia moglie mi aspettava a tavola, mi sedetti e mentre lei a cucchiaiate sorbiva il brodo le raccontai tutto. Che scrivevo così abbondantemente per compiacere un’altra, che non si combina nulla di buono senza soffrire, senza sbagliare, che l’avevo conosciuta al corso di scrittura, che mi aveva dato un mucchio di consigli e che c’ero andato a letto. Bevve tutto il suo brodo e prese anche il mio levandomelo da sotto al naso.
Sapresti scriverlo?, disse.
In qualche modo meritavamo tutti quanti un finale diverso e così lo scrissi.
All’alba mia moglie venne e lo lesse d’un fiato e si commosse perché era lei la protagonista, e se l’insegnante l’avesse letto si sarebbe commossa perché era lei la protagonista. Mi baciò sulla fronte e accartocciò il racconto gettandolo nel cestino. Mi guardò negli occhi e mi parvero verdi e la sua voce la più tenue che avessi mai udito e disse: «lo dicevo io che avevi talento».
Giuseppe Midolo è nato a Siracusa nel 1992. Chef di professione e appassionato scrittore e pittore, debutta ufficialmente nel mondo della scrittura nel 2013 con il romanzo Il frottivendolo. Suoi racconti sono apparsi sulle riviste letterarie Split e Blam. È convinto che una libreria senza le opere di Louis-Ferdinad Céline e di John Fante sia uno spreco di spazio e legno. Nei suoi cassetti si contano più di quattrocento poesie, una manciata di racconti e diversi dattiloscritti in cerca di una casa editrice. Attualmente sta lavorando alla sua sesta opera.