Racconto: La cassapanca – Carlo Maria Negri
Racconto: Milleuno
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A Parigi si può vivere anche in un armadio, sapete? Ma la legge francese è alquanto severa in questo. Ci dicono, infatti, che non tutti gli armadi possano definirsi vivibili. E per l’abitabilità di essi ci si dà molto da fare. L’affittuario, ad esempio, e non la proprietà, deve impegnarsi a rendere idoneo lo spazio generosamente concesso dal padrone dell’armadio. Concesso, badate bene, con una pigione minima di milleuno euro al mese, spese comprese.
Così mi arrabatto anch’io a rue de la Source. Cioè, ci arrabattiamo, tra coetanei di questo dedalo urbano di mansarde zincate.
Per non sprecare spazio, ogni armadio è ben accostato all’altro sul fianco. La nostra è una comunità affiatata. Ci diamo manforte, altruisti e solidali con tutto il corridoio. Siamo fatti così, magari sbagliando, mai però con cattive intenzioni.
Il bagno sul fondo è condiviso. Bisogna farci l’abitudine. L’unica pecca di questa vita è proprio quella del bagno condiviso: siamo in tanti, perlopiù studenti e con una pessima mira. Ma anche lì, ci stiamo lavorando. Studenti e studentesse, a ciascuno il suo giro quotidiano, puliamo i resti di ipotetici incendi estinti per mezzo di idranti o di fantomatici Canadair. D’altronde la forza idrica non manca: siamo a Parigi!
Ma ecco che, tra le tante sorprese della vita, dall’altra parte del corridoio, nello spazio più angusto sotto l’abbaino non occupabile da armadio alcuno, appare dal nulla questa cassapanca. Una cassapanca! Ci credereste?
Eppure la cassapanca era già occupata da un uomo, uno straniero come noi; sprovvisto, però, del suo papiro d’identità che avrebbe potuto, nella maniera più burocratica possibile, permettergli una vita felice, spensierata e soprattutto in pace con lo Stato francese. Certo, qualcuno deve averlo portato su, cassapanca e ospite. Ma come fare, adesso? Sì, ora lo spazio di tutto il corridoio è ben occupato e ci sta anche. Ma come la mettiamo con la legge? Ecco, noi non vogliamo guai. Ma non vogliamo nemmeno essere come i padroni dei nostri armadi: fiscali, puntigliosi, arroganti… insomma, stronzi!
Io per primo ho rasserenato l’uomo. Sembrava agitato, spaventato, impaurito, diffidente. Non conosceva il francese, né l’inglese o qualunque altra lingua parlata nel corridoio. Così mi avvicinai a lui con qualcosa da mangiare, da bere e un cuscino. L’uomo sembrava non capire. Annuiva per ringraziare, con dei cenni con la testa per cibo e acqua ricevuta, credo. Ma non capiva il senso di quel cuscino, glielo si leggeva negli occhi, né quella lunga serie di armadi occupati da giovani studenti. E ancora meno, quando arrivarono i compari, verso sera, mentre ognuno di loro portava qualcosa per rendere la cassapanca la più dignitosa tra le cassepanche di questa terra, l’uomo continuava a non raccapezzarsi.
Ovatta, coperte, tendine, lanterne, libri per isolare il mobile dal pavimento e una infinità di cordicelle e puntine da disegno. Gli portavamo tutto questo! In questo modo l’aspetto della cassapanca poteva sembrare quello di un piccolo camper con tanto di tendina estraibile. Un bijou! Sistemata giusto in tempo per la periodica visita del proprietario.
Il padrone degli armadi pretendeva i suoi soldi in contanti. La sera di ogni prima domenica del mese lo vedevamo entrare nel corridoio a ridosso del cesso. Già si poteva sentire un certo movimento di cose rassettate, di piedi in fuga che poi frugavano piano gli oggetti nel buio tra le ante chiuse. Ante che si aprivano e si chiudevano come imbarazzate dall’idea di nascondere parte dei propri effetti personali. Dopotutto c’erano l’agitazione e la paura di essere cacciati dal proprio armadio da un momento all’altro. Potevamo forse credere a una generosità a tempo indeterminato? Macché, non in questo mondo fatto di garanzie che non potevamo offrire. Così eccolo entrare, il padrone, con il pastrano e il cappello. L’andamento un po’ claudicante di chi controlla e dà occhiate. E là in fondo, dove c’era il vuoto sotto l’abbaino, come prima cosa vide lo straniero con noi nascosti a spiare tra le fessure. È fritto!, fu il pensiero di tutti.
Un lungo silenzio attardava l’inevitabile. Chi fosse quell’uomo non lo sapeva nessuno. Ma il padrone sembrava conoscerlo meglio di tutti. In seguito scoprimmo che lo aveva portato lui, insieme a quel carico di magnanimità che pretendeva il soldo sempre e comunque.
Ma cosa avrebbe potuto offrire un ospite come quello? Quali qualifiche personali per la causa della gloriosa ospitalità parigina sarebbero potute bastate per tenersi stretta quella cassapanca?
E alla fine, a rottura dello stallo, qualcuno uscì dal proprio armadio per avanzare verso i due. In mano stringeva i soldi della pigione insieme a qualcos’altro: venti euro extra per quello appena arrivato. E con lui ne seguì un altro, e un altro ancora. Il corridoio aveva fatto colletta. Ben duecento euro insieme a spiccioli racimolati qua e là per il posto nella cassapanca.
«Non bastano» disse il padrone. «Altri ottocento. Il prossimo mese, vediamo».
A quel sentire, le nostre recriminazioni furono del tutto inutili. Lo spazio più angusto di una cassapanca a parità d’affitto di un armadio, la modalità illecita di quello che era un ricatto morale, ovvero la massimizzazione del profitto per mezzo del nostro spirito solidale, il fatto che tutta quella vita fosse sbagliata e che la nostra condizione non poteva più sopportarla. Fiato sprecato.
«Andatevene» fu la risposta.
Quella sera rientrammo tutti nei nostri armadi, esausti e derubati dalla possibilità di avere una scelta. Anche immaginandola non c’erano alternative al degrado alimentato dalle nostre speranze e dalla possibilità futura di vivere in qualcosa di meglio di un armadio.
Il padrone se n’era andato con il pastrano gonfio di contanti. Gente come quella non la fredda nessuno. Derubarlo? Accopparlo? Manco per sogno. E quel che successe dopo fu ancora peggio.
Il rumore di un uomo che lavora. Un secchio riempito d’acqua e la spugna che porta via le tracce di una certa vergogna. Il capo chino, lo sterno magro e inarcato e lo spirito del rassegnato che frega via e strizza nel cesso la nostra Parigi, e quel poco di ingenuità puerile che ci portavamo ancora dentro gli armadi della nostra infanzia.
Carlo Maria Negri è nato e vive a Milano. Scrive, legge e fa il padre a tempo pieno. Ha quarant’anni.