Racconto: Amo – Apolae
Racconto: Milleuno
Call
Mai avrei dovuto perderlo, dannazione, mai, che dopo anni Hoderi ancora lo serba nelle pupille contratte, il nero del suo astio rinsecchito. Questa mia indole scellerata ha creato troppo spesso esiti balordi, sconvenienti, detestabili, lui lo sapeva e lo sapevo io, ancor meglio nostro padre, sin da quando gli toccavamo la cintura con la fronte, piccoli ed entusiasti, porgendogli la zazzera nell’ascoltare, Voi siete diversi: stesso impasto ma forme diverse. Cinse mio fratello con fermezza solenne, Hoderi prometti che baderai a Hoori. Promise. Il voto a mio padre, più che altro una promessa strappata all’ingenuità dell’adolescenza, gravò sul cuore di mio fratello sin dal giorno al dojo. Lui non l’avrebbe ammesso, neanche a torturarlo, eppure la verità era palese come grani di polvere in un cono di sole.
Dopo il rito di maturità ricevemmo due doni: un arco per me, un amo per mio fratello. Io divenni modesto cacciatore, lui pescatore attento. Fu quando persi l’amo che scattò un freno, svelato dalla sua crescente mutria su nostre divergenze, impegnative o irrilevanti che fossero. Finalmente determinato a provargli la mia affidabilità, tenevo a rinsaldare il nostro legame non solo in virtù di una coincidenza sanguigna, ma anche su solide basi spirituali. Glielo chiesi in prestito per andare a pesca, Fidati di me fratello, feticcio portafortuna, per mostrargli come anch’io fossi capace sulle sponde placide di un fiume, Va bene ma attento, Hoderi prese il mio arco e andò a caccia. Non seppi in seguito come andò l’esperienza, il mio pasticcio scriteriato rovinò tutto, dovetti tenermi quel nodo in gola – sebbene intimamente percepii che neanche lui si trovò bene a ruoli invertiti.
Battei a pesca verso le nove, sveglia tarda e imbarazzante, non ero un pescatore né volevo diventarlo, figuriamoci, bastava un giro di buona sorte, seppure sfornito delle esche, dimenticate a casa. Solo un folle poteva insistere in quella mattina che scivolava pigra senza pesci ad abboccare, quale poi così stupido a mordere un filo d’alga. E quanta noia a sfiorare i secondi che fluivano nei bagliori del sole sul fiume come lancette di luce. E sarebbe stato certo d’aiuto un cappello a tesa larga, come quelli tipici di mio fratello, ma a me piaceva tenere la fronte libera, meditare, contando le increspature mentre il fluire della corrente ne modificava di continuo il ritmo, uno due sei dieci venti, Zzz, il ronzìo delle zanzare mi distraeva, Zzz zzz sciò sciò, tentavo di schiacciarle tutte, una a una, inutile faccenda. Mezzogiorno ammonticchiava le nuvole quando mi appisolai all’ombra rossa di un acero, con la canna a pescare da sola, infilata nel terreno friabile, la mia schiena confortata da una solida corteccia, da fantasticherie a palpebre pesanti sul cesto di orate che avrei offerto allo stupore di Hoderi, Guarda qua che meraviglia, dacché mio fratello aveva sempre pescato trote in quel tratto di fiume e l’avrei lasciato a bocca aperta come una carpa.
Stùk. Frìs. Plòp. Mi svegliai col pungente ciuffo di hakone intorno alle narici. Un’ardita estate gonfiava il petto, la bevevo vorace, lo respirai a pieni polmoni il suo saluto. Ci vollero diversi minuti per notare la mancanza della canna da pesca, sparita assieme all’amo. Tentai di simulare la calma che avrebbe conservato mio fratello, analizzai dal generale al particolare le possibili cause dell’accaduto, dunque un viandante senza scrupoli avrebbe potuto riconoscere la pregevole fattezza della canna e rubarla, magari, io avrei potuto cercarne le tracce, seguirle, sì, forse era il caso, che ci facevo ancora lì ghiacciato sui miei pensieri? E se invece un fugu avesse abboccato, tirando la lenza troppo forte? Valutavo se tuffarmi nel letto opaco, pigro e sornione, malgrado non riuscissi a spostarmi, tutt’uno con l’albero, irrigidito dalle possibilità proposte dal caso come le stecche di bambù in un ventaglio schiuso sul cielo. Di certo lui avrebbe già trovato una soluzione sagace, figlia della sua pazienza, o se ne sarebbe fatto una ragione in virtù del suo incrollabile senso del dovere, a questo riflettevo accompagnando l’arco del sole verso ovest, per buona parte del suo tragitto, e mi schernivo con banali scuse che nulla avrebbero riparato, che a niente sarebbero servite. Quando ci rincontrammo a casa e farfugliai l’accaduto, Hoderi restituì mesto l’arco. Silenzio. Poi volse le spalle e uscì dalla stanza, tenendo ancora tutto dentro, anche quella volta che rimasi da solo coi flettenti in mano, a fissarne ammirato le condizioni impeccabili, migliori di quelle in cui lo conservavo abitualmente, lui diligente oltre il dovuto. Piansi lacrime salate, prono di fronte al caminetto, urlando il suo nome in un rimpianto di cenere sparsa, Hoderi perdonami, lamia stolta inerzia. Avevo perso il suo oggetto più significativo, senza possibilità di recuperarlo.
Il giorno seguente intagliai undici ami utilizzando il legno del mio arco, deturpandolo al punto che divenne irriconoscibile. Incontrai Hoderi e lo implorai di sceglierne uno che potesse rimpiazzare il regalo di nostro padre, glieli mostrai febbrilmente sulle mani tagliuzzate, Ecco, lui non si scompose, Vedo, li saggiò sapiente raccogliendoli nei palmi candidi, poi mi guardò attraverso, come se scorgesse il kami di nostro padre, Non avresti mai dovuto perdere il mio amo, Hoori, socchiuse le palpebre, Ma ancora peggio, sacrificare il tuo arco per fabbricarne di nuovi è stata la cosa più sciocca che potessi fare. Lo disse mentre una folata gli spiegazzava il colletto della camicia. In poche ore ci ritrovammo entrambi senza l’ultimo dono di nostro padre, allora Hoderi mi strinse con fervore la cintura di cuoio, tirandomi a sé per un abbraccio disperato, qualche singhiozzo e poi la quiete, io sicuro del fatto che tra le sue braccia non stesse immaginando di stringere me, legittimo d’altronde, come biasimarlo il suo gesto forzato, nascosto nella possente stretta che incarnava la devota esecuzione di una promessa infrangibile.
Lo amo, mio fratello, ma siamo facce della stessa medaglia che non si guarderanno mai. Corro verso lui, chiamo a gran voce, ma si gira dalla parte opposta e capisco che non mi vedrà. Saremo sempre uniti e distanti, nel segno di un conio battuto troppo a lungo.
Si fa chiamare Apolae perché solo così riesce a scrivere liberamente. Piccoli premi locali per narrativa breve. Pubblicazione nel 2022 nell’antologia di LibroMania (DeA) The Source. Scrivere sull’Acqua. Suoi racconti compaiono sulle riviste CrunchEd, Fiat Lux, In fuga dalla bocciofila, Kairos, L’appeso, L’equivoco, Liberi di scrivere, Linoleum, Lo Scisma, Nabu Storie, Racconticon, Smezziamo, Spaghetti Writers, Tango Y Gotan e Tremila Battute. Altri testi popolano la pagina Instagram apolae_fotoracconti. Ama la sua famiglia e la letteratura. Si impegna per coniugarle.