Lost, vent’anni dopo: vale ancora la pena tornare sull’isola?

Per tutti quelli che hanno assistito al suo avvento, Lost è una delle serie che hanno cambiato tutto. Per molti di loro, è semplicemente la serie. Era il settembre del 2004, negli USA, mentre la prima tv italiana arrivò nel 2005: sono gli anni che gli storici della televisione indicheranno come la nuova Golden Age, in cui ha inizio la messa in onda di Grey’s Anatomy, di Nip/Tuck, di Dr. House, di Desperate Housewives – ma sono gli anni, soprattutto, di Lost. Difficile pensare che senza Lost ci sarebbe stata anche solo un’età del bronzo. E oggi, che di anni ne sono passati venti (l’anniversario ricorre esattamente il 22 di questo mese), e ti ritrovi in quel momento della vita in cui il tempo si misura in decadi e senti il bisogno di fare un bilancio, ti chiedi: che cosa ne sarebbe adesso di me, di tutti noi, se quell’evento lì non ci fosse mai stato? Cioè, se il volo 815 della Oceanic Airlines non fosse mai precipitato. Allora prendi l’album dei ricordi, e rivedi il sorriso di Locke con l’arancia in bocca, il cane di Michael, il pancione di Claire, Kate che bacia Sawyer, poi bacia Jack, e tutto quel che è stato. E allora un’altra domanda ti si forma in testa: e se provassimo a tornare sull’isola?

Se avete X, o il più recente Threads, vi sarete accorti che la stessa domanda se la sono fatta in molti, e la risposta è stata una: facciamolo. L’occasione si è presentata quando Netflix ha reso di nuovo disponibili gli episodi di tutte e sei le stagioni lo scorso agosto, invitandoci a naufragare ancora. Non che Lost non fosse già in catalogo su altre piattaforme, ma si sa: nessuno smuove le acque come fa Netflix (perdonateci per i giochi di parole sul mare, i disastri e gli aerei: non se ne può fare a meno). In tempo di anniversari, a distanza di quasi due decenni da quando abbiamo visto per la prima volta Jack aprire gli occhi e il logo della serie stagliarsi su sfondo nero accompagnato solo da un breve suono (a proposito di Netflix, che il suo jingle d’apertura venga da qui?), l’acquolina sale in bocca.

Episodio dopo episodio, però, qualcosa va storto, e l’appetito non scende. L’affetto rimane, i ricordi riaffiorano, ma qualcosa non combacia con la nostra memoria. Cos’è successo? La risposta è semplice, ma dolorosa: quegli anni si sentono. Qualcuno direbbe che il tempo ha cambiato le persone, ed è vero. Siamo cambiati noi. E la colpa, un po’, è anche dello stesso Lost.

La serie tv ideata da J. J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber ha rivoluzionato i canoni della narrazione seriale, ma quei canoni hanno continuato a evolversi dopo di lei. Prendiamo, per esempio, la naturale articolazione delle stagioni in puntate: soltanto la prima ne contiene addirittura ventiquattro. Una cifra enorme, se comparata alle serie di oggi. Ormai nessuno più produce racconti televisivi che vadano oltre le dieci puntate (circa) a stagione. È pur vero che la durata dei singoli episodi si assestava intorno ai quaranta minuti, mentre oggi siamo abituati ad arrivare anche a un’ora, ma a conti fatti la durata complessiva è comunque pari al doppio di quella odierna.

A partire dalla quarta stagione il numero degli episodi cala drasticamente (complice lo sciopero degli sceneggiatori d’allora), eppure il danno rimane. Quelle ventiquattro puntate iniziali sono uno scoglio enorme, e un dispiegamento simile del racconto ha l’effetto di un allungamento forzato. Lo ha detto anche Matthew Fox, il medico Jack Shephard dei nostri cuori, che Lost è durato un po’ troppo. E non si tratta soltanto del finale e di una trama diventata via via troppo ingarbugliata, no: Lost appartiene a un’era in cui le serie tv dovevano poter andare avanti per anni e anni e dispiegarsi in migliaia di episodi. Una delle conseguenze dirette di questo stiracchiamento è che la narrazione ha un ritmo lentissimo. D’accordo, succedono tante cose, ma in fondo non quelle a cui vorremmo assistere. Pensateci: i passeggeri sono appena diventati naufraghi dispersi in mezzo al mare, e dopo poche ore scoprono la presenza di un temibile (e non identificabile) mostro sull’isola eppure, per un lungo arco di puntate, nessuno ne parla più. Sembra quasi che se ne siano dimenticati. Più tardi, arriva un misterioso individuo, tale Ethan, che non era su quel volo: vuol dire che l’isola deve avere anche altri abitanti. Ma dopo un po’ sono tutti impegnati a preoccuparsi di qualcos’altro.

Se Lost fosse stata scritta oggi, il mistero del mostro, degli Altri e dell’orso polare avrebbe punteggiato tutto il racconto finché non fosse stato archiviato, anche come irrisolvibile. È l’intero panorama attuale a essere diverso. Oggi abbondano le miniserie, le serie antologiche, le serie da appena tre o quattro stagioni. Insomma, consumiamo tutto subito e siamo già pronti a passare al prossimo titolo della nostra lista. Persino la distribuzione è cambiata, con le stagioni che ci vengono consegnate tutte in una volta, e non un episodio alla settimana com’era in uso vent’anni fa (che, a pensarci adesso, sembra una tortura infinita). E forse qui sta un’altra delle ragioni – magari la più importante – che rendono Lost un prodotto d’altri tempi. Cioè l’attesa. Quei sette giorni che trascorrevano tra un episodio e l’altro cementavano la nostra fede nella madre isola e consolidavano una comunità di fan che mai, prima d’allora, era stata così nutrita.

Noi millennial non avevamo mai avuto un feticcio attorno a cui riunirci tutti insieme in ogni parte del globo. Eravamo ancora troppo piccoli quando arrivò Twin Peaks, che comunque si schiantò contro la tirannia dello share un po’ troppo presto. Certo, abbiamo avuto i teen drama, ma neanche quelli erano così trasversali, così aggreganti e intriganti da riunire grandi e piccoli, uomini e donne, nerd e bulli, tutti insieme alla stessa tavola. Lost ha inventato i forum di discussione online, l’universo narrativo espanso, il concetto stesso di hype, e ha fatto della nostra esistenza collaterale il senso stesso della serie: la vera esperienza stava proprio nell’attesa. È per questo che, in fondo, poco importa se il mistero è rimasto senza spiegazione, o se la spiegazione non ci ha convinto. Troverete più fan adirati per il finale del Trono di Spade di quanti si lamentino di Lost, perché il piacere andava ben oltre la semplice visione.

Va da sé, perciò, che quel piacere a un certo punto non sia più replicabile. È un po’ come assistere a una reunion della nostra boyband d’infanzia preferita, reimmergersi in un ricordo a cui vogliamo bene, ma poi tocca ammettere che oggi ascoltiamo tutt’altra musica. E a Lost, comunque, saremo sempre riconoscenti, per aver finalmente sottratto i personaggi televisivi alla loro bidimensionalità. Per averci regalato il primo cast sinceramente inclusivo, dagli asiatici agli afroamericani, passando per gli ispanici, per la ragazza madre, il drogato, persino la fisicità non allineata, col disabile e il sovrappeso (ma niente lgbtq+, almeno non in ruoli principali: peccato!). E, soprattutto, per averci reso così dipendenti dagli enigmi, dal sovrannaturale, dai plot twist, da una serialità high concept in cui tutto, dalle battute, ai numeri, alla musica, diventa iconico. Non tutti, però, siamo fatti per restare sull’isola come Jack. Per alcuni di noi la cosa migliore è fare come Kate, dirgli addio, salire sulla barca e non tornare mai più.

Andrea Vitale

Andrea Vitale nasce a Napoli nel 1990. Frequenta il liceo classico A. Genovesi, e nel 2016 si laurea in Filologia moderna alla Federico II. Ama la musica e la nobile arte dei telefilm, ma il cinema è la sua vera passione. Qualunque cosa verrà in futuro, spera ci sia un film di mezzo. Magari, in giro per il mondo. Attualmente frequenta un Master in Cinema e Televisione.

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