Cinquecento modi per uscire dal labirinto – Antonio Esposito

Poiché non è dato sapere quali sono le regole di progettazione del labirinto, quali schemi ricorrenti siano stati applicati e quali le tracce da seguire, è compito dello sguardo mappare i terminati spazi circostanti; nella fantasticheria trovare una plausibile comunione tra macrocosmo e microcosmo. Dapprima le caratteristiche botaniche: a visuale ampia i corridoi perlopiù composti di taxus baccati, buxus sempervirens o semplici piante di bambù; più da vicino le minuscole foglie verdi che intessono sulla propria lamina percorsi di nervatura mediana e secondaria. Quindi lo spazio esteso intorno: siepi non più alte di due metri e mezzo, poco meno, poco più; cielo silenzioso, sovrumano. Da naufrago tenere conto della solitudine: prendersi un secondo per dire: «io sono solo». Puntare gli occhi avanti e vedere soltanto siepi verdi. Puntare gli occhi avanti e notare soltanto verde. Puntare gli occhi avanti. Verde. Ignorare il cielo, l’alto comporta vertigine. Ricordare le parole degli altri e comprendere che non c’è possibilità di perdersi in un labirinto se succedono fatti degni di nota. Tipo ritrovare degli oggetti. Cose. Delle parole degli altri ricordare quando scrissero: «Cammina anche per chilometri verso ciò che non cerchi, cercalo in tutti i posti in cui hai controllato l’ultima volta». Rimescola i simboli e affida lo sguardo solo ai riferimenti mobili. Il vento. Il vento è un alleato danzante, viene dalle stagioni passate e soffia e suona sulle presenti e vive: è polmone dal centro, fischia lamenti, docile accompagna i corpi. Spera ti venga fame, la fame trova soluzioni inaspettate. Attenzione a come la luce gioca sulle foglie, da dove. Guarda. Un ago per fissare le immagini nell’occhio sarebbe di grande aiuto. Da un picciòlo di foglia un raggio di luce può farsi esile e scendere lungo la siepe. Seguendolo puoi scoprire che dirama lungo il terreno a tratti erboso e quindi, di tanto in tanto, risale le superfici. Luce di foglia diventa luce di bambù. Ma sale sale – come nelle fiabe cammina cammina – e si fa impossibile per la pupilla mantenere stretta l’immagine: a ridosso del cielo la luce è più forte. Stringendo le palpebre il raggio però si assottiglia, emana bagliori, lo si riconosce fermo a un incrocio. Sparisce dietro l’angolo e come lampo torna indietro, rimbalza, fino a poggiarsi sulla punta delle scarpe, sotto le suole, a incitare il passo. Occhio che vede. Piede che tocca. A rigore di scienza i geografi che realizzarono il labirinto ne mapparono i percorsi senza gli strumenti per ridurlo in scala, operarono di solo sguardo e numeri. Ben presto si accorsero che una mappa delle stesse dimensioni del labirinto in nessun modo avrebbe potuto essere d’aiuto per i visitatori all’interno; né tanto meno avrebbe potuto stimolare l’immaginazione di chi aspirava a visitare. E se non puoi figurarlo nella mente, non ci sono possibilità di mitopoiesi. Restano solo infiniti percorsi possibili di cielo e terra, un sole imbrogliato in alto, il piano calpestabile in basso. Avanti. Indietro. Probabile destra. Possibile sinistra. L’udito viene in soccorso se fai attenzione a come scricchiola la vegetazione sotto la suola; ai crac, i cric, e i croc dei rami sotto ai piedi. Ricordare le differenze che intercorrono tra movimento e trasformazione. Accorgersi della presenza del corpo: prendere coscienza di sangue, nervi e immaginazione. La solitudine è l’ultima goccia. Per questo, dei percorsi possibili prendere quello più preciso, con il minimo margine d’errore, sempre di fronte agli occhi, immobile, statico, ripetitivo, volitivo, dove letterariamente si getta lo sguardo.
Una svolta in quella direzione, insomma.
Di lì.
Lì.


Antonio Esposito (Napoli, 1989). È editor di narrativa per Giulio Perrone Editore. Suoi racconti e articoli sono apparsi su «Minima&Moralia», «In allarmata radura», «Ostranenie», «Rivista Blam!», «K de Linkiesta», e altri.


L’illustrazione che accompagna il racconto è di Luca Verduchi.

Lascia un commento

Torna su