Wakiki beach – Claudia Conte

Mia figlia oggi non va a scuola, avremmo fatto tardi; sto versando il caffè, mi sono svegliata da poco ma mi accorgo solo ora che è cambiata l’ora durante la notte. Prendo il telefono, confronto gli orologi a muro e quelli digitali: ho ricevuto un messaggio alle 6 e 15. Erano le 5.15 o le 7.15? Mia cugina è in città, non la vedo da quando ero alle elementari, poco prima che nonna morisse, chiede di incontrarci per un caffè.

Maty, ferma davanti al sottopassaggio della stazione, si tormenta un brufolo immaturo che pulsa di rosso, è caldo e teso, una piccola isola vulcanica sulla natura liscia; è arrivata dalla città come nei film, con un borsone, piccole treccine nei capelli e la collana-collare a maglie nere. Con lo sguardo vuoto mastica una gomma mentre osserva una coppia di anziani e un cane che gli annusa i piedi, probabilmente randagio anche se i cani dei paesi non lo sono mai fino in fondo. Sale sull’auto dei miei genitori come chi è abituato a cambiare posto di continuo.
Quattro anni di differenza non sono poi così tanti avevo l’occasione di scoprire quello che lei sapeva, dove era arrivata prima di me. Volevo indagare: aveva baciato qualcuno? a quanto pare baciare era faticoso, c’erano tecniche che richiedevano tenacia: il mulinello, la lavatrice, il risucchio. Il tutto poteva apparire piuttosto grottesco ma in realtà l’aggettivo corretto probabilmente era: umido. Intanto quell’estate le tette mi erano cresciute ed era finita la quinta elementare.

Nel mio paese abbiamo il mare e le spiagge libere, sulle quali arriva dai casotti la musica in filodiffusione; gli stabilimenti balneari sono tutti più o meno uguali e assomigliano a delle palafitte plasticose ma si danno un tono chiamandosi Baracoa o Waikiki Beach; Maty legge già «Cioè» e ascolta il walkman, compriamo braccialetti di filo abbinati, azzurri, del colore-amicizia. Lei mette il suo sopra la cavigliera con dei piccoli ciondoli a forma di delfini, ha dei piedi bellissimi con lo smalto blu e gli anellini; io quell’estate vado in giro indossando gli zoccoli di legno in formato bambino, numero 33.

Casa nostra è un quadro brutto incellofanato male, tende di merletti pendono ovunque, centrotavola ricamati coprono qualsiasi porzione dei mobili e altrettanti oggetti diversissimi fra loro tentano una comunicazione claudicante. Solo lo schieramento di bomboniere di cigni Swarovski ha autorevolezza e autostima rispetto al resto.
Il più pesante dei drappi del corredo è appeso al bastone di mogano della camera di mia madre, appena prima della mia, dove dormiamo.
La classica conformazione a “elle” la rende molto buia, non sembra una casa marina, i rimasugli di sabbia nelle fughe delle piastrelle fanno intuire qualcosa, quando ci cammini scalza, piccoli granelli si appiccicano fra le dita e finiscono poi nelle lenzuola a fine giornata.
La parte meno luminosa si trova infondo al corridoio, dove ci sono sette mensole stracolme di bambole da collezione. Alcune sono di ceramica e vestite di tutto punto, sono grandi come le mie ma non si possono toccare. Il gruppo più numeroso, però, è di piccole donne in teche di plastica, alte 15 centimetri, provenienti dai paesi del mondo: la “spagnola” con ventaglio e gonna sollevata, la “russa” con il colbacco, persino una eschimese piena di pelo e la tedesca con il grembiule. E poi, un po’ fuori dal tema generale della collezione, una guardia della regina d’Inghilterra: è un maschio. 
Un’aria piena di pulviscoli e polvere si sposta ogni volta che provo a sfiorare quella popolazione cercando di non lasciare tracce del mio passaggio.

Quando arriva la sera siamo distese sul lenzuolo a fiori del mio letto, nella mia camera ci sono due letti anche se non ho fratelli e sorelle. Io e mia cugina ne usiamo solo uno per stare vicine, nonostante il caldo. La parte superiore della mia spalla confina con il suo gomito, la pelle di quel pezzo di corpo è umida di sudore, restiamo immobili come per non strapparci a vicenda.
Maty ripete le istruzioni sui vari tipi di baci (compreso quello in caso di apparecchio dentale), io prendo appunti mentali visualizzando le bocche, mi sembrano vasche ancora troppo piene e veloci, ho dei dubbi ma li tengo per me. Posizionate sotto il raggio di luce della lampada sulla mensola del letto, facciamo un test su Come capire se lui ti tradisce, improvvisandoci esperte e crolliamo arse dal sole. 

Mi scappa la pipì, sono le due. Scalza sulle mattonelle supero la prima metà di corridoio e con la coda dell’occhio percepisco qualcosa. Mi fermo lentissima e vedo una donna, sembianze forse da suora ma sicuramente da vecchia, anche lei scalza come me, i piedi sotto la tenda, il corpo come una colonna di marmo bianco e un libro in mano. Non la guardo bene, non so dire di preciso se la tenda si muove ma avverto il cigolio delle pale del ventilatore, ha un ritmo preciso: simula un decollo e si ferma all’improvviso. Così mi fermo pure io, ho bagnato leggermente le mutande, le tiro su più strette per non percepire la variazione della temperatura del liquido a contatto col corpo. Vado in bagno, il tempo di svuotare la vescica quanto basta e torno nel letto.

Mi sveglio tardi, Maty non è nel letto, ho mal di pancia, mi premo la parte precisa fra ombelico e pube come per farle delle piccole rianimazioni. In cucina mia madre fuma e tiene la cornetta del telefono fra spalla e orecchio. Io la guardo appoggiata al muro, in attesa. Mi sono arrivate le mestruazioni per la prima volta. Maty ha telefonato a suo padre, è andata via.


Claudia Conte, classe ’89, metà pugliese, metà abruzzese. Si occupa di comunicazione per il non profit. È un’attivista polemica ma gentile, praticamente una Barbie strana. Insegna alla Scuola Holden e ogni tanto scrive cose per sé stessa, per la sua terapeuta e per sua figlia di 5 anni.


L’illustrazione che accompagna il racconto è di Adele Bilotta.

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