
Un giorno come un altro – Giuditta Vasile
La mia mano destra ha in mano un ombrello. Un ombrello di quelli lunghi, neri. La punta poggiata con forza sulle cementine del mio corridoio. Ho appena deciso di andare da qualche parte, di uscire, di fare delle compere, ma la mia mano ha in mano un ombrello. E non sta piovendo, almeno non sembra, la finestra è distante dalla mia vista ma la vedo. Non riesco a spostare i piedi neanche di un passo perché la presa della mia mano sull’ombrello è dura. Stretta. Decisa. Resistente. La mia mano destra quella rigidità non vuole abbandonarla e nel tentare con la mia mano sinistra di staccare la mia mano destra: cado. Il mio piede destro ha ceduto. Un clac della caviglia. E nel cadere, resto incollata come una perpetua a quel sanguisuga di ombrello. Non c’è scampo. Provo dolore per la caviglia e la mia mano destra appare ai miei occhi leggermente allungata. Senza occhiali vedo poco: le mie dita hanno preso la forma a uncino del manico dell’ombrello. Non riesco a liberarmi. Rigiro il mio corpo in direzione del soffitto. L’ombrello si stende. Dritto verso l’alto. La mia gamba destra non si muove. Il mio piede destro è flaccido, mollo, non spinato. Aspetto. Tento col pensiero di spostare quel piede. Nulla. Provo a sedermi. Non riesco. Allungo la mano sinistra verso il polso destro. Cazzo. Resto incollata. La schiena a terra e le braccia dritte verso l’alto. Avrei voluto passare una giornata diversa. Una passeggiata. Un caffè. Respirare un odore non mio. Sentire veramente freddo. Un freddo esterno. Un freddo che sa di freddo. Non un freddo interiore. Le mie dita si stanno allungando. Anche le dita della mano sinistra si allungano. Io voglio uscire da questa casa. Adesso. Lo apro questo ombrello. C’è un bottoncino di acciaio proprio sopra il mignolo destro. Lo dovrei spingere con la bocca. No, assolutamente no. Anche le mie labbra rimarrebbero attaccate. Grido aiuto. Sul soffitto pende un lampadario a forma di nuvola, si muove. Quella nuvola sta precipitando verso di me. Soffio per mandarla via. I miei occhi si muovono. Avanti, indietro. Allungo il collo in avanti: un immenso corridoio. A-I-U-T-O. La mia voce rallenta, le mie parole rallentano. Zitta. Riapro la bocca: a. Un fiato secco. La mia bocca è aperta, paralizzata. Il lampadario è ritornato sul tetto. Una giostra. Il mio corpo gira. No, sono i miei occhi a girare. Le braccia allungate, il corpo steso, la bocca aperta e i miei occhi adesso paralizzati, fissi. Le chiavi di questa casa non le ha nessuno. Nessuno suonerà al mio citofono. Cazzo. Non voglio che qualcuno abbia la mia privacy, che qualcuno possa decidere quando entrare e quando uscire da questa porta. Io avrei voluto passare una giornata diversa. Lavarmi i capelli, pulire le unghie, non mangiare cibo in scatola, indossare abiti puliti. Chiedere a un passante il suo numero di telefono. La mia bocca si chiude leggermente, è tutto opaco, mi accarezzo le labbra con la lingua, le dita si muovono leggere sull’ombrello. Avrei voluto uscire col mio ombrello per avere un appoggio, una sicurezza. Un punto fermo. Con un bastone sarei sembrata troppo vecchia. Ma questo maledetto ombrello ha deciso di gettarmi a terra, di non essere la mia stampella. Lo apro. Lo voglio aprire. Lo voglio aprire! Si dice che se si apre un ombrello in casa porta male. Ancora peggio di così? Il mio corpo è diventato grigio, ha assunto lo stesso colore della polvere che invade questo pavimento. Sono mesi che non esco, forse quasi un anno. Solo il tetto del corridoio è rimasto bianco. Voglio uscire. Il bianco è il mio colore preferito. Voglio guardare il cielo. Apro l’ombrello e prendo aria. Premi quel tastino Lucia. Avanti. Uno due tre. Il mio pollice destro si muove. Clac. Sorrido. È grande. Se soffio forte dentro l’ombrello potrei provare ad alzarmi. La verità è che non so dove ho messo le chiavi di casa. Cazzo. Non posso uscire da questa porta. Avanti. Spaccare il vetro della finestra e uscire. Le mie gambe si muovono. Si alzano da terra. L’ombrello mi trasporta su. Una pillola accanto al piede destro, l’acchiappo, la ingoio, un tubetto di pasticche vuoto. Le braccia attaccate all’ombrello. La mia unica certezza. Un passo dopo l’altro. Entro nel grande e grigio soggiorno, sorpasso un’altra boccetta di pasticche vuota, un’altra ancora. Un’altra mezza piena. La mia mano raggiunge la maniglia della finestra. Sorpasso il tavolo. Il mio braccio si allunga. Non piove. Dei raggi di luce inondano il mio volto. L’ombrello mi tira su. I miei occhi girano. I miei battiti veloci. Butto aria fuori dalla bocca. I miei piedi levitano dal pavimento. Apro la finestra. Freddo. Risucchio l’aria esterna. La rigetto fuori. Sono su una giostra. Poggio una mano sul davanzale. Poggio il mio sedere sulla cornice della finestra. Mi siedo. Che bella giornata! Adesso posso uscire. I miei occhi girano veloci. Un forte respiro Lucia.
Aria.
Giuditta Vasile, classe 1991, sicula doc! Tutto quello che è Arte l’attrae: come un boomerang si destreggia tra cinema e teatro; la scrittura è la sua nuova passione.
L’illustrazione è di Alfonso Esposito.