Compalit2015: Parodia e satira nella poesia italiana contemporanea
L’incontro di giovedì 17 Dicembre presieduto dai professori Daniele Balicco e Guido Mazzoni, “Parodia e satira nella poesia italiana contemporanea” ha posto l’attenzione su come l’indebolimento che nel secondo Novecento ha caratterizzato la poesia, ha reso difficile a sua volta la sopravvivenza della poesia comica. Nonostante ciò si è rilevato come, a partire dagli anni ’50- ’60, si sia diffusa una nuova poesia, ludica e ironica, secondo modi satirici, che ha rinnovato le forme del comico precedenti.
Dare una definizione della poesia comica, risulta essere un compito alquanto difficile; richiede l’individuazione di spazi discorsivi di articolazione del comico, che per sua natura si sviluppa in un territorio allargato, privato della specificità dei generi, assenti nella poesia del Novecento.
A questo proposito il professore Paolo Zublena, uno dei maggiori specialisti e conoscitori di poesia italiana contemporanea, ha aperto il suo intervento “Brevi cenni (teorici) sull’universo comico. La parodia e la satira” proponendo la lettura di una poesia di Corrado Costa “Vita di Lenin” (1983), ricordando come la lettura di questa poesia da parte dell’autore suscitasse il riso tra il pubblico, riso che nasce dal contesto, (da ciò che sappiamo di Lenin che stride con il contenuto della lirica) e non dalla struttura del testo, che non rientra in quelle che sono le categorie di comico attive in poesia (nonsense, parodia, satira). Mentre l’ambito del nonsense ha conosciuto una frequentazione episodica, la satira e la parodia hanno goduto di una maggiore legittimazione, anche attraverso tentativi canonizzanti espliciti. In ogni caso, si può rilevare che ci troviamo di fronte ad oggetti di difficilissima definizione: ad esempio, la parodia coinvolge molti aspetti nella sua struttura: necessario è il rapporto con un ipotesto, mentre, non necessariamente la parodia è comica.
Invece, quando la parodia non è semplice parodia di un singolo ipotesto, ma di un gruppo di testi o addirittura di un genere (si pensi al Don Chisciotte), tende a diventare pastiche ma anche qui il confine appare labile per una precisa teorizzazione.
La satira, di contro, ha un rapporto diretto con il contesto reale, a cui si rivolge in maniera aggressiva e critica: un testo satirico, simile ad un pamphlet, comunque, non è necessariamente e interamente comico.
L’intervento intendeva definire, in sintesi, precisava alcuni problemi inerenti le categorie concettuali e in particolare precisava le manifestazioni nella letteratura della parodia e della satira come generi.
Entrando invece, in contatto diretto con testi ed autori, Antonio Loreto, studioso della poesia delle seconde avanguardie, nel suo intervento “Parodie del sonetto, dal 1960 ad oggi”, ha mostrato come nella storia delle forme poetiche occidentali, il sonetto non poteva che generare tentativi di parodizzazione. In Italia, in particolare, dagli anni Sessanta ad oggi, si registrano molteplici pseudo o parasonetti. Esiste nella percezione dei poeti un qualcosa che si può definire “ il sonetto”, la forma più sperimentata e stereotipata, quella che Zanzotto definì “figurar che ti pale al di là del tempo”. Da un lato il sonetto, quindi, si mostra come forma codificata, dall’altro appare come forma elastica, capace di assorbire un grande numero di infrazioni e variazioni, alle quali, però, bisogna comunque porre un limite, pena lo sconfinamento verso altri generi della versificazione di ordine comico-burlesco (in qualche modo percepiti come inferiori) come la frottola e il sonetto a burchia. Ecco perché Bachtin sosteneva che un sonetto parodico non appartiene al genere sonetto; questa resistenza alla parodia è ciò che garantisce la percezione sonettistica nel mondo come figura e forma codificata, che si conserva perfettamente.
Tra le molteplici riprese metriche nel Novecento, scarsa fortuna conosce la ballata. Gian Luigi Picconi, con il suo intervento “La controverità delle madri: appunti sulla ballata à la Villon tra satira e parodia” si sofferma ad analizzare come nel 1961, Sanguineti pubblichi la “Ballata delle controverità” e Pasolini “La Ballata delle madri”. Entrambi, pur non conoscendo, probabilmente, i rispettivi esperimenti, sono incappati in questo desiderio di cambiare l’esito della poesia comica. All’ inizio degli anni Sessanta vari scrittori hanno provato a rinnovare il genere, creando una poesia caratterizzata da modi comici, influenzati dal così detto effetto Brecht che nel 1961 risuonava all’interno della letteratura italiana, indicando un ritorno all’ordine, all’adozione critica di forme chiuse e di meccanismi definiti, al fine di ricreare una poesia caratterizzata da modi comici.
Piccone si sofferma poi ad analizzare come Sanguineti, nella sua ballata abbia ripreso la struttura metrica e la costruzione nonsense da Villon; egli stesso afferma di periodizzare la sua poesia in tre fasi contrassegnate dall’adozione degli stili tragico, elegiaco e comico, che grazie al “ novissimum testamento” di Villon stesso ha potuto integrare e mescolare, aiutato anche dalla lettura di Mimesis di Auerbach, nella quale si sottolineava come la poesia comica mancasse di una “forma rivoluzionaria” che potesse cambiare il mondo.
Passando poi all’analisi dell’esperienza di Pasolini, Picconi mostra come questi avesse da sempre in progetto una raccolta di ballate, quelle che avrebbe intitolato “Ballate intellettuali”. Secondo Pasolini, la ballata intellettuale avrebbe dovuto realizzare una “mimesis della mimesis”: l’elemento intertestuale sarebbe stato, in realtà, l’elemento di mediazione verso un obiettivo polemico extratestuale. Per questa ragione è forse più nel quadro di una letteratura satirica che va colto l’esperimento delle ballate di Pasolini, tanto più che fa espressamente riferimento alla modalità discorsiva dell’invettiva, ponendo il progetto delle ballate sulla stessa linea di scrittura degli epigrammi. La ballata consente di uscire dal canone puro dell’elegia e consente di teatralizzare la propria voce; a parlare non è Pasolini ma un personaggio locutore mediato attraverso lo stile gaddiano. All’interno della “Ballata delle madri”, è però Pasolini stesso a parlare, attraverso un travestimento del discorso proprio, un tentativo di distacco ironico da sé stesso. Picconi, in conclusione, ha voluto dimostrare come la volontà di orchestrare in poesia un discorso comico da parte di Pasolini e Sanguineti, sia in primo luogo dettato dalla necessità di occupare uno spazio analogo all’interno del campo letterario.
Del tutto differente dal discorso ironico e satirico di Pasolini e Sanguineti, è quello di Montale. Francesco Giusti, ricercatore e studioso di poesia italiana parte nel suo intervento “L’ironia è in chi parla o nel mondo? Contraddizione e forme della soggettività nel Diario del ’71 e del ’72 di Eugenio Montale” dalla lirica del poeta ligure, “La forma del mondo” per mostrare come egli abbia dato vita ad una specifica forma di ironia, che non si concentra sul canzonare la realtà o i discorsi di soggetti altri, che, ad esempio, in molti casi – di cui si è avuto modo di discutere nel corso dei lavori – si identificano con il potere. Il discorso ironico di Montale porta l’autore a sparire, a nascondersi, mettendo in rilievo solo le contraddizioni presenti sulla pagina; un’ironia che mostra il contrasto tra ciò che viene detto e la realtà stessa. Possiamo leggere dai versi di Montale:
Se il mondo ha la struttura del linguaggio
e il linguaggio ha la forma della mente
la mente con i suoi pieni e i suoi vuoti
è niente o quasi e non ci rassicura,
Così parlò Papirio. Era già scuro
e pioveva.
Mettiamoci al sicuro
disse e affrettò il passo senza accorgersi
che il suo era il linguaggio del delirio.
Le considerazioni di Papirio sono messe in contrasto con le affermazioni di un io lirico che, come detto, tenta di non emergere se non attraverso la forma dell’ironia: sprezzante dei discorsi sul mondo di Papirio, a questi oppone non una verità assoluta, ma solamente un’ulteriore considerazione alla quale non c’è possibilità di rispondere con una verifica empirica, e confinando quest’ultima, comunque, nella sfera del dubbio. Montale sembra sempre “ripararsi” nel testo stesso, e ciò è stato, come illustrato ed emerso anche successivamente durante il dibatto, motivo di critiche da parte di altri autore del suo tempo, ben più esposti, come Pasolini stesso, del quale viene rilevata un’ironia riconducibile ad un “agonismo tragico”, che mette il poeta sempre in primo piano, di contro a quella di una “sottrazione” propria di Montale.
Muovendosi sempre all’interno della lirica italiana, Emanuele Broccio con l’intervento “La furiosa satira della Pupara: sull’impegno civile e intellettuale della poesia di Insana”, riconduce il discorso di nuovo in una dimensione comico-satirica totalmente opposta dagli intenti di Montale. La Insana, infatti, utilizza il suo linguaggio per una critica dissacrante che si muove in due direzioni: da un lato i suoi versi attaccano l’appiattimento culturale e “la bella società letteraria” chiamando in causa anche uno dei maggiori poeti del tempo, il già molte volte citato Pasolini. Si legge in alcuni suoi versi:
e poi non basta lo sfruscio
il nome e la nomea, ci vuole qualcosa d’altro
altrimenti davvero sbianca e piange
pure l’inanimata scavatrice.
Dall’altro il suo obiettivo è quello di indurre una riflessione sulla società contemporanea e il suo degrado inarrestabile, auspicando un primordiale ritorno al vero. Le sue parole, taglienti, grottesche, talvolta scandalose per il mondo delle lettere si fanno carico di un’ironia dietro la quale si nasconde un forte impegno civile, la volontà di tornare ad illuminare le menti avvolte dall’oscurità di un presente in declino.
Ulteriormente concentrato su un comico che nasconde un forte intento di critica e dissacrazione della società italiana post boom economico, è stato l’intervento di Katia Trifirò “L’abominevole favola del progresso. I mostri di Juan Rodolfo Wilcock, tra comicità e orrore”. Wilcock, autore argentino stabilitosi in Italia definitivamente a partire dal 1957, gettò il suo sguardo ironico, acuto e sensibile alla disfunzione di quella società che viveva in quel momento la sua “Dolce Vita”. L’intervento pone al centro l’opera teatrale “L’abominevole donna delle nevi” dove è protagonista, appunto, una strana creatura sub-umana, strappata alla sua natura e lanciata nel luccicante e accecante mondo dello spettacolo, che la costringerà a cambiare la sua natura, ma dal quale, inevitabilmente, scapperà. L’intento è quello di sottolineare, attraverso un tono eccessivo, parodistico e comico, nella forma di una favola grottesca le degenerazioni di una società oramai in definitivo mutamento, che va conformandosi sempre più come massa.
In questo senso, i due interventi, quello della Trifirò e quello di Broccio guardano ad un tema simile, attraverso forme diverse; nella Insana quanto in Wilcock l’esigenza è quella di ridere e parodiare una società in declino; ma dietro il riso si nasconde comunque il timore per un mondo oramai alla deriva.
Al centro di questa sessione, anche nei dibattiti che sono seguiti, è di certo l’opposizione tra le modalità di vivere e sentire la poesia e l’ironia di Pasolini, Sanguineti e Montale: la questione ha riguardato soprattutto – nella riflessione conclusiva di Mazzoni – l’immersione nel presente o il distanziarsi da esso, l’essere sempre un passo indietro rispetto alla “poltiglia” di cui è fatto quest’ultimo. Si conclude questa sessione attraverso una forte dicotomia che pone da un lato Auerbach (introdotto nel discorso da Loreto), per il quale il comico non ha alcuna possibilità di cambiare il mondo, e dal’altro Bachtin, per il quale, invece, il comico è rivoluzionario. All’interno di questo paradigma è possibile leggere tutta la poesia contemporanea con intenti ironici, comici o satirici e riflettere sulle sue funzioni.
Anna Giordano
Anna Chiara Stellato