L’Intervista: Paolo Zardi
Se è vero che Paolo Zardi, ingegnere padovano, è sotto i riflettori soprattutto per XXI secolo, romanzo finalista al Premio Strega, al Premio Sinbad e al Premio Scrivere per amore, alle sue spalle ha numerose pubblicazioni di interesse affatto minore. In particolare, fra gli altri, vanno certamente ricordati Antropometria (Neo, 2010) e Il giorno che diventammo umani (Neo, 2013). Sono due raccolte di racconti forti, molto diverse fra loro per struttura ma egualmente meritevoli. Proprio sulla forma breve abbiamo fatto una chiacchierata, per capire come Zardi intenda il racconto, e come questo si configuri all’interno dei suoi libri.
D: Allontaniamoci per un attimo dai recenti successi di XXI Secolo e dalla forma del romanzo, e torniamo al 2013, anno di Il giorno che diventammo umani. Quanto è durata l’incubazione e la stesura di questa raccolta?
- La raccolta, uscita nel 2013, ma completata nell’autunno del 2011, ha richiesto qualche mese di scrittura; ciascun racconto, tuttavia, ha avuto tempi di incubazione propri. Per fare un esempio, Domenica pomeriggio è nato in un tempo insolitamente breve – l’idea di partenza arrivata intorno alle otto e un quarto di mattina, in autobus, la scrittura finita in due ore durante un viaggio in treno, il giorno stesso; A.C. invece ha impiegato quasi due anni per vedere la luce: la realizzazione in sé, l’atto di buttare giù le parole, va sempre veloce perché avviene solo quando ho chiaro la struttura del racconto; quello che c’è prima – idea seminale, drammatizzazione, scelta dei personaggi, ambientazione, lingua – può richiedere anni. Ci sono racconti che ho in testa dal 2008 e che non sono ancora riuscito a scrivere.
D: Spesso si pensa alle raccolte come a insiemi di elementi separati. Nel tuo caso, è facile riscontrare legami stretti fra i racconti, come la bambina di L’ultima sigaretta che viene citata ne Il bacio. Che significato hanno per te, e come strutturi una raccolta?
- A differenza di Antropometria, la mia prima raccolta per Neo nata attraverso un lavoro di scrematura e cernita tra le cose che avevo scritto fino a quel momento, come una sorta di compilation, Il giorno che diventammo umani nasce come raccolta in cui ogni racconto rappresenta un tassello di un disegno più generale. Il legame tra i racconti è ancora più profondo di quanto si possa notare a una prima lettura: i personaggi continuano a fare capolino tra una storia e l’altra, e solo la costante mancanza di nomi propri nasconde questa struttura (ad esempio l’uomo che sta morendo in La stella marina è l’amante che la donna di La cagna ha perso, e via dicendo). Al di là dei legami tra i personaggi, tuttavia, ciò che tiene insieme la raccolta sono i temi di fondo (l’amore, il dolore e i legami famigliari) e un sguardo preciso sulla vita, declinati secondo diverse angolazioni.
D: I tuoi testi sono spesso molto forti, parlano – fra le altre cose – di tumori, malattie, degenerazioni fisiche e mentali. Cosa ti porta a scrivere in particolare di queste tematiche?
- Parafrasando un celebre saggio di Roth, di cosa dovrebbe parlare uno scrittore? Del paesaggio? Probabilmente Nabokov avrebbe risposto di sì, ma lui ha sempre avuto il gusto della provocazione… La letteratura serve ad affrontare le domande che l’amore e il dolore pongono a ciascuno di noi. C’era una vecchia battuta che girava nelle università americane, che tradotta suonava più o meno così: se è verde o si muove è biologia, se puzza è chimica, se non funziona è fisica. Io aggiungerei: se non si riesce a trovare una risposta, là arriva la letteratura. Scrivere è rappresentare problemi insolubili: cos’è la morte? Perché amiamo qualcuno? La risposta che un buon racconto riesce a fornire è misteriosamente chiara, e inesprimibile in una qualsiasi altra forma.
D: Passiamo al racconto in sé: ogni autore ha la sua ricetta, la sua concezione di short story. Qual è la tua? Cos’è per Paolo Zardi un racconto?
- Semplificando, per me un racconto nasce necessariamente da un evento eccezionale – non in senso assoluto, ma almeno per la persona che lo vive. Perché sto raccontando questo particolare momento della vita di questa persona? Se non trovo una risposta valida a questa domanda, non inizio neppure a scrivere. Deve esserci un contrasto, anche interiore, tra due forze contrapposte – l’amore e la vergogna, il desiderio e la fedeltà, l’anima e il corpo. Non è necessario che il racconto lo risolva; ciò che conta è che qualcuno ne prenda atto, più o meno lucidamente. Che altro? L’atto di narrare è intimamente legato con lo scorrere del tempo. Deve essere chiaro quando è l’adesso della storia, la timeline che avanza. Ogni racconto deve avere un orologio invisibile al suo interno che ne scandisce il ritmo. Lo spazio è quasi sempre quello che mi circonda – luoghi di lavoro, centri commerciali, Mc Donald, salotti. Soprattutto deve farmi male, parlando di me nel modo in cui non vorrei mai sentirmi raccontato.
D: In che modo pensi che il racconto possa descrivere il nostro tempo? E il romanzo? Quali credi siano le differenze di approccio nel rappresentare la contemporaneità?
- Il romanzo e il racconto consentono di rappresentare la contemporaneità nello stesso identico modo: ciò che cambia è la struttura drammaturgica (il racconto mette in scena un’epifania, il romanzo una trasformazione), non l’oggetto della narrazione. In ogni caso, il nucleo di qualsiasi storia, da due versi di Ungaretti a La recerche di Proust, non è mai la contemporaneità che è passeggera, irrilevante dal punto di vista artistico, e noiosa quando viene rappresentata in modo pedissequo. Conta l’essere umano. Quando Priamo prega Achille per avere indietro il corpo di Ettore, dimentichiamo che quelle parole sono state pronunciate tremila anni fa, in un mondo che potrebbe essere Marte: se piangiamo (e io ho pianto, mentre mio figlio me le leggeva) è perché conosciamo bene quei sentimenti – perché sta parlando di noi al di là della contingenza del momento in cui stiamo vivendo.
D: Trasformiamo leggermente una domanda classica. Più che chiederti chi sono i tuoi “padri letterari”, ti domando: quali scrittori di racconti ti hanno insegnato qualcosa sullo scrivere breve attraverso i loro testi, e cosa, in particolare?
- I primi racconti che ho sentito leggere erano quelli di Dino Buzzati, che la mia baby sitter mi leggeva amorevolmente quando avevo sei o sette anni. In quegli stessi anni, ho passato molti pomeriggi con le storie di Gianni Rodari. A 12 anni ho letto L’antologia di Spoon River e ne sono rimasto incantato: racconti brevissimi in versi. A 13 anni ho divorato l’opera omnia di Kafka, e tutti i racconti di Flannery O’Connor che considero ancora la migliore autrice di racconti in assoluto. Poi altri americani, come Salinger, Caldwell, Miller. Negli ultimi anni, ho riscoperto Cechov, che avevo letto non so quando: un gigante inarrivabile. Anche David Foster Wallace, che è più grande sul breve: senza di lui probabilmente otto anni fa non avrei iniziato a scrivere racconti. Non mi sento figlio di nessuno di loro ma, piuttosto, un frullato verdognolo e un po’ annacquato dei loro libri.
D: Chiudiamo con uno sguardo all’oggi. Il racconto, lo vediamo, è bistrattato, ma ci sono molti autori capaci di scriverne di ottimi. Fai qualche nome di scrittori contemporanei – in Italia e all’estero – che ti hanno colpito per le loro short stories.
- Sono anni che sostengo che la più brava autrice di racconti in Italia è Marina Sangiorgi, una giovane donna dotata di un incredibile talento che, purtroppo, ci ha lasciato da pochissimo: il mio sogno è che qualcuno raccolga in un unico volume tutti i suoi scritti, compresi quelli inediti.
Recentemente ho letto Queste stanze vuote, una bellissima raccolta del giovane barbuto Massimiliano Maestrello, uscito per La gru uno o due anni fa, che mi ha profondamente emozionato. Se mi guardo intorno, comunque, la lista è assai lunga ed eterogenea. Il paese bello di Stefano Sgambati, Intermezzi, potente opera d’esordio di un autore che poi si è affermato anche sulla lunga distanza. Roberta Lepri, romanziera toscana, ha un istinto naturale anche per il racconto, e non sbaglia mai un colpo. Ho scoperto da poco Elena Rui che con il suo Fiale unisce un’eleganza francese a una ferocia sapientemente controllata. La mente e le rose di Simona Castiglione: divorato. Carlo Sperduti, autore di un’originalità mostruosa, è tra gli scrittori più consapevoli e bravi che io conosca. Mi piace molto Filippo Balestra, che però mi fa soffrire con la sua parsimonia: dovrebbe scrivere di più. Ilaria Vajngerl promette bene e spero di vedere presto una sua raccolta. Come vedi, il panorama letterario di autori di racconti è piuttosto vasto, e sono sicuro di aver dimenticato qualche altro bel nome. Daniele Pasquini, ad esempio. Valentina Ferri. Gianni Tetti. C’è fermento, le idee e il talento non mancano, e la piccola editoria dimostra di saper fare il suo lavoro. Sull’estero, non saprei: ultimamente guardo soprattutto all’Italia.
Maurizio Vicedomini