Racconto: Stare qui con te – Ivan Castellucci
Siamo sulla terrazza della chiesa di San Pietro, a Portovenere.
Io seduta sul muretto, con gli occhiali da sole. Fisso il mare.
Tu seduto accanto a me. Non diciamo nulla. Ci godiamo il fantastico panorama che la terrazza riesce a donare.
Ti metto una mano sulla gamba e tu, immediatamente, la prendi e la stringi.
Col pollice me l’accarezzi lentamente.
Mi stringi la mano, ma è come se mi stringessi anche il cuore.
Quella stretta di mano, cosa darei perché la tua mano non si staccasse più dalla mia.
– È bellissimo stare qui con te – dico, e appoggio la testa sul tuo petto.
Non mi rispondi e io mi volto verso di te un poco offesa.
Vedo che hai accennato un sorriso, e questo placa il mio animo che si era un po’ agitato per la tua risposta mancata.
Capisco che il tuo sorriso vale di più, molto di più, della risposta che avresti dovuto darmi.
Allora alzo la testa e inizio a fissare il sole caldo, mi inebrio del suo calore.
Lo fisso, finché tu non decidi di togliermi gli occhiali e tutto diventa abbagliante.
– Non metterteli più – dici.
– Perché? Mi dà fastidio il sole.
– Ma ti coprono gli occhi, e non voglio che i tuoi occhi vengano coperti.
Perché non ti ho conosciuto prima? Perché non ti ho conosciuto quando potevo averti?
Ora non posso averti, per quanto io voglia… non posso.
Non siamo più a Portovenere.
Siamo in casa tua, sul tuo letto.
Siamo stesi, uno di fronte all’altro, nudi.
– È bellissimo stare qui con te – sussurri.
Dovrei essere felice, dovrei non avere pensieri cupi in testa, ma nonostante tutto mi metto a piangere.
– Cos’hai? Cosa succede? – chiedi.
– Succede che… succede che…
– Cosa? Ti ho trattata male?
– Basta fare domande! – dico, con tono quasi isterico – non te ne accorgi da solo?
Neanche mi rispondi, mi fai solo uno sguardo perplesso, ed è allora che te lo dico:
– È chiaro che questa non è la realtà, cazzo!
– Sì che lo è… e noi…
– Ma cosa noi, non esiste noi! – urlo – noi non possiamo stare assieme e questo è tutto un sogno.
– Un sogno? – me lo dici con uno sbigottimento che mi risulta quasi irritante.
– Cazzo, fino a due secondi fa eravamo a Portovenere! Ora siamo a casa tua, come te lo spieghi?
Mi guardi con aria sorpresa, poi inizi a capire che probabilmente ho ragione… e diventi triste.
– Questo è solo un sogno, lo capisci?
– Sì.
– Mi spiace tesoro, è solo un sogno – ripeto, mentre ti accarezzo i capelli.
Infatti mi sveglio.
Mi sveglio e non sono più nel suo letto.
Sono sola, sola e stronza.
Sola nel mio appartamento triste e stronzo.
Vado alla finestra e vedo con piacere che il mare di Portovenere è stato sostituito dall’asfalto di Via Veneto, una delle vie principali di Spezia.
Il sole, invece, è stato sostituito dalla pioggia.
La apro, apro quella finestra sbattendomene della pioggia che entrerà in casa, e mi accendo una sigaretta.
Il pacchetto stava lì sulla mensola, mi chiamava, non potevo resistergli.
Fanculo al freddo, fanculo alla pioggia, viva il tabagismo.
La pioggia, comunque, non è molto forte e non entra in casa.
Fumo e guardo la gente passare giù in strada.
Io sono qua, sfigati, al riparo dalla pioggia, mentre voi vi bagnate.
È un po’ come quando dormi e fuori c’è il temporale: qualcosa di cattivo dentro te pensa alla gente che non è sotto le coperte, e ci gode.
Inizio, però, a sentire freddo e solo ora capisco di essere nuda. Completamente nuda.
Spengo la sigaretta nel posacenere accanto alla finestra, poi chiudo.
Spero che nessuno mi abbia vista, spero proprio di no.
Metto una vestaglia per stare in casa e decido di farmi un caffè, ed è proprio allora che qualcuno suona alla porta.
Esco dalla mia camera, percorro il corridoio e, una volta di fronte alla porta, controllo attraverso lo spioncino.
Sei te, l’uomo che ho sognato poco fa.
L’uomo con cui ero a Portovenere e, immediatamente dopo, su un letto.
Ti apro.
Non entri, rimani sulla soglia e mi fai:
– Non me lo dai un bacino?
– No – rispondo seccata.
– Perché?
– Lo sai perché, non posso averti e quindi non voglio avere neanche questi contentini.
– Non sarà sempre così.
– Sì, certo.
– Ascoltami cara, ti prego.
– Non chiamarmi cara.
– Ascoltami…
– E non chiamarmi in nessun altro modo – lo interrompo – non chiamarmi proprio, e poi… cazzo… o entri o stai fuori, non stare sull’uscio che non voglio far sentire i fatti miei a tutto il palazzo.
– Posso?
– Certo, cretino, anzi… devi, se vuoi continuare a parlarmi.
Entri del tutto.
– Vuoi un caffè?
– Sì, grazie.
Vado in cucina, sento i suoi passi, sento che mi segue.
Non mi volto neanche per un secondo, arrivo allo stipetto e sto per prendere la caffettiera, però mi fermo.
Mi fermo perché sento le sue mani su di me, sento che mi toccano i seni.
La cosa mi piace.
Poi, però, le mani vanno su.
Vanno al collo e iniziano a stringere.
La cosa non mi piace più.
Non mi dimeno neanche, sono troppo stupita.
Che diamine sta facendo?
Quando sono sul punto di perdere i sensi mi ribello, faccio ciò che fa ogni donna nel momento del pericolo: gli tiro un calcione, all’indietro, nei testicoli.
Sento un urlo e contemporaneamente le sue mani che si tolgono dal mio collo.
Poi mi giro e lo guardo, il suo volto è terribile.
Da bambina feci un brutto incontro: nei boschi incontrai un cinghiale, era inferocito e voleva caricarmi.
Alla fine non mi caricò, però la faccia di quel cinghiale non me la sono mai scordata.
Ora sto nuovamente fissando una faccia del genere, ma mi sa che questa volta il cinghiale mi caricherà e, probabilmente, mi ucciderà.
È così che succede. Lui si avventa su di me.
Mi mette una mano sulla faccia e me la sbatte violentemente contro il mobiletto.
Cado a terra. Si inginocchia accanto a me e dice:
– È bellissimo stare qui con te.
Poi inizia a strangolarmi, ma mentre lo fa si mette a piangere.
Piange, e le sue lacrime mi arrivano in faccia.
Le sue lacrime mi bagnano il volto, mentre perdo la vita.
Ed è proprio in questo momento, mentre sto morendo, che ci arrivo.
Arrivo a capire che anche questo, come prima, potrebbe rivelarsi nient’altro che un sogno.
Infatti mi sveglio.
E sono nella mia camera, come nel sogno di prima.
L’unica differenza è che ora piove veramente forte, molto più che nel mio sogno.
Ho fatto quello che si usa definire un sogno nel sogno.
Anzi, se vogliamo essere precisi il primo era un sogno, mentre il secondo un incubo, quindi sarebbe meglio dire un incubo nel sogno.
Sento l’impulso di andare alla finestra a fumare, come nel mio incubo.
Prima, però, mi guardo.
Sì, sono nuda esattamente come nell’incubo, in più fuori piove veramente troppo forte.
Decido di fumare in casa, fregandomene della puzza di fumo.
Non metto neanche la camicia da notte.
Prendo le sigarette, e il posacenere, dalla mensola e attraverso l’appartamento fino al salone.
A essere precisi il salone andrebbe definito un salottino per quanto è piccolo, ma non mi lamento, almeno ho una casa.
Quindi mi siedo sul divano, e mi metto a fumare.
Mentre fumo guardo di fronte a me.
Nel salottino c’è anche una poltrona, di fronte al divano.
La guardo, fisso quella dannata poltrona.
La fisso con intensità, perché c’è qualcosa.
Qualcosa che ho messo qualche giorno fa.
Ci sei te, c’è l’uomo del mio sogno e del mio incubo.
Il tuo volto è freddo e pallido.
Il tuo corpo è rigido e immobile.
Ormai hai iniziato a buttare fuori dei liquidi puzzolenti, soprattutto dalla ferita da coltello che hai sulla pancia.
Ma non mi fai schifo, sai?
Mi alzo dal divano e mi siedo sopra di te, bacio le tue labbra viola.
– È bellissimo stare qui con te – dico.
Dico quella stessa frase che ti ho detto nel sogno e che mi hai detto nell’incubo.
Dico quella stessa frase che ho detto nell’istante in cui ti ho accoltellato.
– È bellissimo stare qui con te.
Ma tu non puoi rispondermi, e mai potrai.
Però almeno ora posso averti.
Ivan Castellucci