Il diario di un viaggiatore. Intevista a Mario Aurino
Viaggiare è camminare verso l’orizzonte, incontrare l’altro, conoscere, scoprire e tornare più ricchi di quando si era iniziato il cammino, affermava Luis Sepúlveda.
Nella letteratura del Novecento il viaggio è concepito come espressione di un disagio. L’uomo ha perso la bussola, è privato dell’identità e di un posto in cui sentirsi veramente a casa. Un viaggio mentale oltre che fisico in cui, come il Leopold Bloom di Joyce, siamo tutti naufraghi alla ricerca di un approdo.
La società è in continuo cambiamento: la solitudine causata dal progresso tecnologico, dal capitalismo esistenziale, dal desiderio di ascendere a una dimensione materiale invece che intellettuale, dal bisogno di affermarsi nella scala gerarchica invisibile che regola le relazioni tra gli individui e che è stata imposta senza che l’uomo se ne sia accorto, può condurre a una perdita.
Ma quanto è sbagliato perdersi?
92 giorni, 10 nazioni, 1 continente, 11 gruppi tribali, 40 città, 9 frontiere terrestri, più di 20000 km percorsi via terra. Dal Mar Mediterraneo all’Oceano Atlantico, passando per l’Oceano Indiano. Dall’ Egitto al Sud Africa. Questa è la dimensione di un viaggio, di una fuga, di un bisogno primario. Queste sono le coordinate di una vita. La vita di Mario Aurino.
Mario, quando hai sentito per la prima volta l’esigenza di caricarti uno zaino sulle spalle e partire? Chi è il vero viaggiatore?
Ho sempre guardato al viaggio come una pulsione alla vita, un istinto primordiale che spesso rimane sedimentato, quasi imbrigliato da doveri, obblighi auto-imposti dalla società contemporanea. Credo che viaggiatori in parte si nasca e in parte si diventi. Riguardando la mia infanzia, con gli occhi di una persona matura, mi rendo conto che da sempre ci sono stati segnali, una sorta di predestinazione al viaggio. Poi capita che gli eventi della vita ci portino lontano dalla nostra vera natura e che d’improvviso, per caso o per fortuna, ci si riavvicini, sentendosi finalmente nel posto giusto al momento giusto, senza nemmeno rendersene conto. Quel momento in cui la casa e l’altrove coincidono, hanno lo stesso nome, e ci rende conto di essere stati viaggiatori da sempre, ancora prima di aver iniziato a viaggiare.
Tuttavia credo che il viaggio sia un fatto soggettivo, che non andrebbe uniformato, standardizzato, catalogato o inserito in schemi precisi. Ho sempre cercato di tenermi fuori dalla perenne diatriba della bipartizione tra viaggiatore e turista, cercando di arricchirlo con caratteri distintivi della mia personalità, soggettivizzandolo il più possibile, oltre qualsiasi possibile inquadramento.
Hai attraversato l’Africa, conosciuto popoli e tradizioni completamente diverse dalle nostre. I tuoi scatti hanno raccontato delle storie, mostrato una realtà senza filtri, proprio come il sorriso dei bambini, una luce nei loro occhi che trasmette, nonostante tutto, positività. Quanto è grande la forza interiore di queste persone? Ti sei mai chiesto qual è la vera bellezza?
Vivere in Africa è una continua sfida quotidiana, una corsa alla sopravvivenza che sfugge a regole precise. Chi ha avuto la fortuna di immergersi nella realtà di certi popoli, andando oltre cliché e semplificazioni, si rende conto che la loro forza interiore è al tempo stesso una debolezza e che quei sorrisi, quella positività a prescindere, nascondono una tempra fuori dal comune e contestualmente un’implicita rassegnazione. Una “inconsapevole consapevolezza” della propria condizione. Il grande tema è l’assenza di una coscienza sociale collettiva, di un diritto all’evoluzione, all’emancipazione. C’è una percezione dell’ingiustizia sociale e dei propri diritti così scarsa che spesso sfocia nell’incoscienza ed è con questa cognizione che in molti sorrisi vedo tristezza e malinconia, ma anche un profondo senso di bellezza. Una bellezza sincera, incontaminata, in armonia con la natura e il mondo.
Un viaggio così lungo può comportare problemi, momenti difficili: hai un aneddoto da raccontare?
Un viaggio è come un vestito che va cucito sugli imprevisti e sono proprio gli imprevisti la vera forza vitale di questo tipo di esperienza. Lasciare il certo per l’incerto, perdersi e ritrovarsi continuamente. Farsi adottare da quello che è sconosciuto, accettando le regole del gioco, comporta un approccio spirituale alla più intima dimensione del viaggio. I momenti difficili misurano la nostra capacità di confrontarci con i nostri limiti, le nostre paure e segnano il confine tra quello che siamo e quello che saremo. E’ su queste basi che ho affrontato i momenti difficili con l’entusiasmo di chi fronteggia un percorso di crescita interiore. Gli aneddoti sarebbero tantissimi, ma contraddistinti da un denominatore comune: l’umanità e la generosità delle persone del posto non mi hanno mai fatto sentire solo, neanche nelle situazioni peggiori.
Ernest Hemingway disse “Una sola cosa allora volevo: tornare in Africa. Non l’avevo ancora lasciata, ma ogni volta che mi svegliavo, di notte, tendevo l’orecchio, pervaso di nostalgia.” Ti capita mai, una volta a casa, di avere voglia di mollare tutto e tornare sulle strade polverose?
Il mal d’Africa è l’unica malattia dalla quale non vorrei guarire mai, perché in quel rapporto simbiotico e ancestrale con questo meraviglioso continente ho sempre visto una perenne voglia di ritorno alla nostra più intima essenza di esseri umani. L’Africa è una Madre che non ti abbandona mai, neanche quando sei lontano. È una realtà che azzera le distanze e non obbedisce a regole di tempo e di spazio, e sapere che è lì e un giorno ci tornerai fa bene al cuore, al di là della nostalgia.
Parlare con Mario apre la mente. Tutti ci siamo guardati allo specchio, almeno una volta nella vita, e forse ci siamo posti domande a cui non riusciremo mai a dare risposta. La difficoltà maggiore sta nel capire se dobbiamo aspettare, lasciando che civolare tutto addosso, oppure guardare avanti. Verso l’orizzonte.
Per guardare gli scatti di Mario Aurino: Facebook.
Antonio Lanzetta