Racconto: La Grande Gobba – Yolima Marini
La Grande Gobba
di Yolima Marini
Come le piaceva sentire il vetro infrangersi contro il muro, le piaceva così tanto che ogni volta che si doveva andare a buttare la spazzatura, si offriva lei prima di tutti gli altri.
Correva giù lungo i campi di grano, superava il ponte e finalmente arrivava davanti alla Grande Gobba dove si buttavano dentro le bottiglie. La Grande Gobba era il cassonetto verde che accoglieva il vetro, la chiamavano così perché ricordava una gobba di qualche vecchio troppo avanti con gli anni.
Finito con le bottiglie, tornava su pian pianino, con ancora il rumore del vetro nelle orecchie che andava a sbattere contro altro vetro, Bam, Bam, faceva ogni volta, a volte anche Bum, a seconda delle giornate.
Quanto le piaceva il rumore del vetro che si rompeva in mille pezzi. Ma proprio tanto. Le ricordava qualcosa di lontano e buffo e indescrivibile, non riusciva però a paragonarlo a qualcosa, forse poteva paragonarlo alla voce stridula della maestra Gisella. Donna corpulenta che sapeva il fatto suo, quando si trattava di fanciulli assai birbanti, un urlo e via, faceva calare il silenzio in due secondi. E come lo manteneva quel silenzio! Nessun altro riusciva a tenere una classe in silenzio fino alla fine della mattinata, quando la campanella suonava e i ragazzi correvano dritti a casa (o così immaginava l’insegnante di matematica). Se la maestra Gisella avesse seguito i ragazzi, invece di perdere il tempo a comprare il cibo per il gatto, il suo adorato Mr. Puffì, avrebbe sicuramente scoperto dove finivano tutti quei ragazzi che si lanciavano come folli lungo le strade di Pisa.
A gruppi di sette o dieci, andavano felici e spensierati dalla Grande Gobba, prendevano un bus dietro alla torre storta e via, dritti verso la campagna, dove ogni cosa odorava diversamente, pure il bus aveva un profumo diverso dal solito quando ci mettevi il piede sopra.
Sapeva di erba appena raccolta e di violette appena messe nel vaso, sapeva di buono e pulito.
Una cosa assai strana, visto che i bus, ogni santo giorno che Dio metteva in terra, accoglievano migliaia di persone di ogni razza e etnia. Quindi era normale se sentivi odore di un altro essere umano meno pulito di te. Era normale, tutto normale, era la normalità che rendeva diversi i bambini della città ai bambini della campagna.
Ma quando si è bambini certe cose non ci si fa a caso. L’importante è divertirsi fino in fondo e se qualcosa va storto, farsi una bella risata è la cosa migliore che possa capitare; ai guai si pensa dopo, quando si torna a casa, all’imbrunire.
Il bus ti lasciava all’inizio del paese, oltre non poteva andare, era vietato. Così tu scendevi con il tuo zaino in spalla, se eri fortunato lo lasciavi in casa di un amico che abitava nei dintorni, alla peggio te lo trascinavi fino alla meta, e poi via su per la salita ripida, e poi giù di nuovo per i campi di grano da raccogliere e tutto in allegria mentre il sudore iniziava a colarti lungo la schiena magra. Ma l’importante era arrivare alla Grande Gobba.
Era quasi impossibile perdersi lungo il tragitto, i ragazzi più esperti aiutavano i novellini a farsi strada. In cambio di un lancio in più dentro alla Grande Gobba potevi arrivare sano e salvo alla meta seguendo i loro consigli. Nessuno badava tanto a quei giovani che a fine primavera si riunivano con in mano ogni tipo di bottiglia, anche perché la Grande Gobba era distante dalle case e dagli sguardi indiscreti e poi non facevano male a nessuno. Meglio all’aria aperta che davanti ai pc, diceva qualcuno. Erano ragazzi che si divertivano tra di loro, sfogavano tutto lo stress o la rabbia lanciando bottiglie dentro al cassonetto verde per poi scoppiare a ridere quando sentivano lo schianto.
Certo, qualche volta poteva accadere una piccola rissa, un litigio, una parola di troppo, volava una sberla o un pugno ed eccoli subito divisi, pronti a fare botte, ma poi c’era sempre qualcuno più intelligente degli altri che riusciva a riportare la calma, e il gioco ricominciava.
Una giornata di mezz’estate, lei corse per i campi e non era l’unica, i capelli al vento si muovevano veloci e spensierati, erano le tre del pomeriggio, i compiti erano stati svolti e lei era libera.
Inutile dire che aveva deciso di andare dalla Grande Gobba per distrarsi un po’ e perdersi nei suoi stessi pensieri, era riuscita a procurarsi tre bottiglie di olio e una bottiglia di vino che non servivano più, aveva promesso a sua madre che non sarebbe stata sola ma Lisa era troppo impegnata con la sua sciarpa per l’inverno che non le aveva badato molto e così si era avventurata per conto suo, seguita da un gatto color fuoco e dalla coda dritta come un manico di scopa. Aveva sentito quel brivido lungo la schiena che capita alle persone leggermente empatiche ma lei l’aveva ignorato. Aveva solo quindici anni. Cosa vuoi che sia un brividino lungo la schiena? Balle! Ecco.
Superò il ponte in legno come sempre, saltò il tronco caduto e finalmente arrivò.
Non c’era nessuno.
Solo lei e la Grande Gobba, ovviamente.
Era vuota, erano passati alcuni minuti prima a svuotarla e ora lei l’avrebbe riempita. Avrebbe sentito quel suono che le piaceva così tanto. Finalmente, pensò, prima di sorridere e avvicinarsi lentamente al suo hobby.
«Cosa combini?»
Quella voce così sinistra la fece saltare. «Cosa combini qui tutta sola?»
«La Grande Gobba» mormorò lei, indicandola.
Lui non era del paese e neanche uno di città, lui era uno di passaggio, ecco. Un ramingo, un vagabondo, un nomade, uno senza dimora. Chiamatelo come volete, ma lui ora si trovava lì davanti a lei e la fissava incuriosito. Forse aveva sentito parlare della Grande Gobba o forse no, poco importava, ora lui era lì e lei era sola. Completamente sola e solamente in quel momento capì quel presentimento così freddo e spaventoso. Era alto, magro come un chiodo, portava un nome straniero ma non lo era per davvero, forse suo nonno, ma non lui. Viaggiava da giorni e aveva fame. Non ricordava quando era stata l’ultima volta che aveva pranzato.
Lei fece un passo indietro, accompagnato da una spinta che la mando lontana da lui, ma non abbastanza.
Doveva insistere con Lisa, sì. Non lasciar perdere subito…
Doveva insistere, eccome!