Fiabe e Psicologia: tradizione, inconscio collettivo e ambiguità
Per i fratelli Grimm le fiabe rappresentavano ciò che restava di antiche leggende e miti, ancora vivi nella memoria popolare e tramandati dalla tradizione orale.
Seppur da un’altra prospettiva, anche Carl Gustav Jung era affascinato dal mondo fiabesco, poiché in esso egli vi trovava l’espressione più autentica e pura dei processi dell’inconscio collettivo, ossia uno spazio inconscio vasto e ricettivo che scardina i limiti dell’inconscio individuale (la cui esistenza poggia su esperienze personali rimosse o sepolte, non accessibili alla coscienza, pulsioni e istinti primitivi e segreti) e, superando lo spazio personale, raggiunge uno stadio nel quale confluiscono molteplici individualità in un’impronta che investe tutto il genere umano; una predisposizione, riscontrabile in tutta l’umanità, a organizzare le esperienze in maniera simile attraverso le generazioni.
Predisposizioni mentali ed esperienze comuni transgenerazionali rappresentano la base di configurazioni, presenti nell’inconscio collettivo, dotate di struttura universale e valore affettivo, definite da Jung archetipi. Basandosi sulle definizioni di inconscio collettivo e archetipi è facilmente comprensibile perché Jung fosse così interessato alle fiabe; esse infatti sono il risultato della complessa immaginazione umana, sempre unica nella sua singolarità, eppure sostenuta dagli stessi cardini.
Nelle fiabe troviamo contesti differenti e lontani per tempo e luogo, ma uniti sempre dai medesimi elementi emozionali.
Bagaglio culturale e psichico di intere civiltà, anche gli effetti di queste incredibili storie hanno subito inevitabilmente variazioni e cambiamenti, e tali variabili possono essere considerate in chiave psicologica.
Di fondamentale importanza, per quanto a un primo sguardo possa essere sottovalutabile, è il contesto in cui la fiaba prende forma. Esse hanno accompagnato piacevolmente il sonno di molte infanzie, raccontate ai piedi del letto da una figura familiare che voleva augurare la buonanotte attraverso una tradizione inconscia, cui lei stessa era stata istintivamente abituata. Di conseguenza, racconti come “Il lupo e i sette capretti” , “Barbablù” o “Vassilissa e la Baba Jaga” dove lampante è la crudezza di immagini assolutamente spiacevoli e angosciose, e i protagonisti negativi non possiedono certo il tatto di una figura utile a un dolce riposo, l’orrore di gesti e persone viene meravigliosamente edulcorato dal calore del contesto in cui la storia viene narrata e il suo effetto camomilla agisce magicamente.
Non era questo l’effetto che in principio si desiderava ottenere, dato lo spietato contenuto della maggior parte delle fiabe, nate molto probabilmente come monito o espediente formativo-pedagogico, valido esempio colorato di prove e sacrifici da affrontare per ottenere un qualche benessere o semplicemente il raggiungimento dell’età adulta.
La dualità della natura favolistica riporta, quasi per osmosi, all’unico esempio di ambiguità nella lingua tedesca, riscontrabile nel termine heimlich, materia di riflessione sviluppata da Sigmund Freud il quale impiega il suo opposto, ossia unheimlich (che viene tradotto in italiano con perturbante) per designare il suo saggio sul tema della paura (1919).
La sua indagine, di natura inaspettatamente filologica, si concentra sul secondo significato di heimlich, il cui primo contenuto riguarda la dimensione rassicurante della casa, del domestico e dell’intimo, (La radice heim-, tra l’altro, rimanda a Heimat, che vuol dire patria, casa) in netta opposizione col secondo, il quale si identifica col suo contrario unheimlich cioè celato, nascosto, tenuto lontano dagli sguardi, nascosto alla conoscenza. Da una parte richiama ciò che è familiare, piacevole e sicuro; dall’altra ciò che è tenuto all’oscuro, nascosto allo sguardo. La stessa idea del “casalingo”, del “domestico” rimanda a ciò che è nascosto alla vista di un estraneo, a ciò che deve rimanere in una dimensione riservata e segreta. Ciò che apparentemente è protettivo e confortevole può diventare ingannevole, pauroso, ambiguo: il termine unheimlich riflette in sé il contrasto dialettico tra qualcosa che sembra sicuro ma può trasformarsi nel suo opposto; come se l’intimità di ciò che è familiare possa diventare inquietante qualora, invece di essere custodita nella casa, venisse manifestata.
Nella semplice natura di un termine si nasconde quindi un bifrontismo, il cui lato oscuro esiste nell’apparente chiarezza del suo significato, così nell’illusoria semplicità di una fiaba può celarsi la verità di secoli di speranze e insicurezze, specchio della complessa sensibilità immaginativa di ogni essere umano.
La fiabe rappresentano una fondamentale tradizione culturale di intere civiltà, molto spesso sottovalutata. Rappresentano la voce di pensieri nascosti e, col giusto calore, rappresentano il più tenero modo di addormentare e addormentarsi.
Marcella M. Caputo