Oldboy. Estremo, vendicativo, oltraggioso.
Chi abbia assistito alla proiezione di Oldboy al Festival di Cannes del 2004 dev’essere rimasto sconvolto di fronte all’immagine in cui il protagonista divora un polpo vivo. Si noti che la scelta del verbo non è casuale: lo divora davvero, in brevissimo tempo, mentre l’animale ancora si muove tra le sue mani e agita i tentacoli al di fuori della bocca del suo carnefice. Per giunta, è soltanto l’inizio di una serie di sfide che il film sottopone allo spettatore, aggredendone lo spirito e pugnalandolo allo stomaco. Ciononostante, in quell’edizione del Festival si aggiudicò il Gran Premio della Giuria (presieduta da Quentin Tarantino), prima di diventare uno dei titoli più famigeratamente esagerati ed esageratamente famosi degli ultimi vent’anni.
Oldboy è l’opera seconda del trittico della vendetta firmato dal sudcoreano Park Chan-wook, successiva a Mr. Vendetta del 2002 (rispetto al quale è più avvincente ed elaborata) e precedente il Lady Vendetta del 2005, col quale condivide una ricercatezza dei contenuti e dell’espressione. Tuttavia, a differenza di quest’ultimo, il regolamento dei conti in Oldboy non passa per il desiderio di redenzione: la vendetta non lascerà immacolato né il suo agente, né il suo destinatario, benché alla fine sia impossibile distinguere l’uno dall’altro.
In una notte del 1988, quando tutto ha inizio, Dae-su viene rapito nei pressi di una cabina telefonica, da cui aveva appena contattato la moglie per scusarsi per aver mancato il compleanno della figlia. Nei quindici anni che seguono, vive rinchiuso in un appartamento-prigione che ha una finestra fittizia su una parete, mangiando il cibo che riceve attraverso una fessura e avendo come unica compagna e maestra la televisione. Coltiva le arti marziali e viene addormentato con un gas soporifero. È sottoposto a un trattamento di ipnosi prima di essere rilasciato, senza sapere il motivo, così come ignori, dopo tutto questo tempo, chi deva ringraziare per averlo privato dei suoi affetti, della sua vita, della sua identità. Incontra una graziosa cuoca di sushi, che lo affianca sulle tracce del misterioso torturatore, ma quel che Dae-su ancora non comprende è che non conta soltanto il “chi”, ma soprattutto il “perché”. E siamo ormai al 2003.
Non è comunque la trama ad aver reso Oldboy il capolavoro acclamato dalla critica mondiale, in patria come nel lontano Occidente, benché anch’essa riservi non poche sorprese – su tutte, l’ultima, scioccante rivelazione, che ci costringe a ricorrere all’espressione quanto mai adeguata del “colpo di scena”. Il motivo dell’uomo che vuole farsi giustizia da sé per un torto subito non è certamente nuovo al cinema (in quegli stessi anni ci furono The Punisher e Man on Fire – Il fuoco della vendetta, fino ad arrivare ai più recenti action con Keanu Reeves o Liam Neeson), ma è la costruzione del racconto a guadagnare al film l’attenzione che merita. Park Chan-wook ibrida, mescola, accumula, senza che le soluzioni stilistiche e narrative impiegate diano l’impressione di un amalgama informe e incoerente; al contrario, i numerosi flashback si integrano con armonia nel tessuto narrativo, e non c’è complessità o innovazione che lo spettatore non possa accogliere immediatamente. Si potrà dire che la vicinanza agli stilemi dell’opera di Tarantino e del suo collega Robert Rodriguez sono impressionanti, e che il richiamo a taluni elementi della cultura occidentale (dal Conte di Montecristo a Sylvia Plath) è fin troppo evidente, ma è alla tradizione cinematografica orientale – ovviamente, verrebbe da aggiungere – che Oldboy strizza l’occhio con insistenza: rapidi zoom dalla figura intera al primissimo piano, sguardi in camera, lunghe sequenze di combattimento e sangue a profusione, cui aggiungiamo anche i sottili rimandi interni costruiti sulla logica dell’anticipazione.
Si badi bene, però, che non siamo nel territorio dell’omaggio, né per fortuna in quello della ripetizione stantia, poiché Chan-wook non si limita a ricongiungersi alla tradizione, ma la reinventa. E perciò la macchina da presa si allontana proprio nel momento in cui sta per succedere qualcosa, si contorce, deforma la scena e colloca i personaggi ai margini dell’inquadratura, mentre il racconto restituisce all’esasperazione della violenza una raison d’être, la incoraggia anziché giustificarla, e le infonde una mesta ironia che è poi l’altra faccia dell’ibridazione: è difficile appiccicare a Oldboy l’etichetta di film d’azione ignorando lo humour nero, il thrilling e il dramma patetico, ma andrebbero citate anche le linee che disegnano la traiettoria di un martello prima di colpire, probabilmente il richiamo più patente alla natura originale dell’opera, l’anime omonimo di Garon Tsuchiya da cui il film trae espirazione. E così avanti per molto. L’innesto coinvolge anche forme e temi che sono quelli propri del cinema del Duemila, di cui la rinnovata estetica della brutalità in primis. Del polpo vivo si è già detto (una curiosità: nel ricevere il premio a Cannes, il regista ringraziò i quattro esemplari che vennero “ingaggiati” durante le riprese). Gli fanno eco le parti del corpo soggette a amputazione o estrazione – lingua, mano, denti – il sangue che schizza sulle pareti e sui volti dei protagonisti, e in un certo senso persino l’esposizione dei corpi nudi porta con sé qualcosa di delittuoso, di deplorevole. Appartiene invece a un altro filone, tipico degli anni in cui viviamo, la frammentazione temporale, l’uso del flashback con la conseguente alternanza tra passato e presente: ma è una manipolazione del tempo che è innanzitutto interiore e soggettivo, così come un’altra manipolazione che ha tanta parte nel film, l’ipnosi, agisce su una dimensione squisitamente personale, la memoria. È (anche) a quest’ultima che Dae-su deve imputare la sua sventura e le sue probabilità di serenità nel futuro. L’alterazione dei ricordi si inscrive nello stesso piano della deformazione dello sguardo della macchina che riprende, e ci coinvolge nella ricostruzione degli eventi quanto gli occhi del protagonista puntati verso di noi.
L’operazione più rischiosa di rimaneggiamento, però, Park Chan-wook la compie ai danni dei costumi e dei valori asiatici, o almeno di quelli che abbiamo imparato a conoscere attraverso il cinema dell’Estremo Oriente. Lo fa quando mette in chiaro che sì, le arti marziali, la criminalità e le sue organizzazioni gerarchiche ci sono, ma non riescono a avere un ruolo primario fine a se stesso. Lo fa quando schiera in campo il patriarcato e la famiglia, ma compiendo un abbassamento che rasenta l’umiliazione e l’oltraggio. Lo fa, soprattutto, quando intacca l’onore. Ciascuno dei due protagonisti maschili tiene al proprio, ed entrambi lo perdono irrimediabilmente. Quello che doveva essere un film sulla vendetta si rivela allora per essere un film sulla punizione di coloro che son venuti meno alle proprie responsabilità. La mancanza di integrità è alfine castigata, ma con una pena che non è commisurata al reato, anzi, induce a sua volta a una colpa ancora più grande. È qui che sta lo smacco più grande compiuto da Oldboy: i suoi protagonisti non possono far nulla per recuperare l’onore. Non gli resta, all’opposto, che arrendersi al fatto di rimanere fatalmente riprovevoli.
Andrea Vitale