Il coraggio di essere fragili: Morrissey & The Smiths
Era il 1983 quando sul palco di Top Of The Pops un eccentrico cantante inglese, pettinato come James Dean e vestito alla maniera dei dandy, si esibiva per la prima volta con la sua band impugnando un mazzo di gladioli al posto del microfono.
Quell’improbabile rockstar, che sul palco alternava timidezza e stravaganza, sarebbe diventato di lì a poco il personaggio più iconico del panorama musicale, tanto da essere inserito nella classifica dei cento geni viventi dal Daily Telegraph ed essere annoverato dal Rolling Stone tra i cento grandi cantanti di tutti i tempi.
Si tratta di Steven Patrick Morrissey, in arte semplicemente Morrissey, frontman agli esordi della sua carriera del gruppo alternative rock The Smiths, un nome scelto insieme al chitarrista Johnny Marr come simbolo del riscatto di tutte quelle persone comuni a cui di solito non si presta attenzione (Smith è il cognome più diffuso nel mondo anglosassone) ma in parte anche come risposta a quelle band che spopolavano nei primi anni ottanta, come Duran Duran e Spandau Ballet, dai nomi considerati troppo complicati e inutilmente pomposi. D’altronde Morrissey è sempre stato l’esatta antitesi del «rockettaro»: rigettata ogni contaminazione con l’edonismo machista à la Mick Jagger, questo “charming man” con la passione per Oscar Wilde ha scelto di dare voce ai disadattati del mondo, empatizzando con la loro condizione di esclusione sociale. È lui stesso a confessare in On The Streets I Ran di aver “trasformato il disagio in canzoni di successo”. Dai testi, a una prima lettura melanconici e struggenti, promana una voglia di libertà e di amore tanto dirompente da plasmare l’immaginario collettivo di un’intera generazione, soffocata da quel clima post-punk in cui imperava l’odiato thatcherismo (non a caso in un brano del 1988 Morrissey cantava con dissimulata bonarietà: “La gente onesta/ Fa un sogno meraviglioso/ Margaret sulla ghigliottina”). Da vero maestro di scrittura, Moz, attraverso quel potente filtro che è la sua voce ammaliatrice, ha saputo esprimere e sintetizzare sentimenti che il pubblico non avrebbe mai avuto il coraggio di guardare così da vicino, fornendo conforto a molti giovani animi disperati. E sembra quasi che la depressione – durata apparentemente una vita, almeno fino all’attuale rinascita di mezz’età – abbia rappresentato uno stimolo alla creatività più che una porta d’accesso alla disperazione.
E se è pur vero che nelle sue liriche non manca una certa dose di auto-compatimento, è l’humor sottilissimo e il tagliente sarcasmo a conferire dignità alle sue agrodolci cartoline dagli abissi. In Bigmouth Strikes Again, ad esempio, Morrissey si dipinge come una Giovanna D’arco, un incompreso che parla troppo e che per questo finirà per essere bruciato vivo (“E ora so come si sentiva Giovanna d’Arco/ Mentre le fiamme salivano al suo naso aquilino/ E il suo walkman iniziava a sciogliersi”). In Some Girls Are Bigger Than Others dichiara che tutto ciò che ha scoperto delle donne è che “alcune sono più grandi di altre”, e niente più. In brani, invece, come The Queen Is Dead e Vicar In A Tutu l’umorismo si fa ancora più mordace, prendendo di mira pezzi dell’establishment inglese, mentre risultano memorabili i versi di Panic nella loro potenza distruttiva di inno antisociale (“Bruciate le discoteche/ Impiccate quei benedetti DJ/ Perché la musica che suonano in continuazione/ Non mi dice nulla della mia vita”), così come le sue esecuzioni live, durante le quali Moz era solito far roteare un cappio ed indossare una t-shirt con la faccia di Steve Wright e la scritta “HANG THE DJ”.
Ma l’arma più tagliente degli Smiths sembra essere il dono della loro nuda fragilità, ostentata come un oltraggio e sventolata come la bandiera di un nuovo movimento rivoluzionario. Così in Ask il protagonista si rivolge a un ragazzo timido e riservato invitandolo a uscire dal guscio, perché “la timidezza può impedirti di fare tutto quello che ti piacerebbe fare nella vita”, mentre la celebre How Soon Is Now? contiene una delle confessioni più autentiche – e quindi potenti – mai ascoltate in un brano rock: “Sono umano e ho bisogno di essere amato/ Esattamente come chiunque altro”; una verità nuda e cruda che non lascia spazio a inutili pose da duro. E non importa se ciò può apparire tremendamente impopolare. Dopotutto Morrissey ha in più di un’occasione confessato di avere amato in gioventù Patti Smith proprio perché scriveva testi in cui diceva tutto il contrario di quello che una popstar dovrebbe dire per farsi amare.
Anche nell’affrontare un argomento collaterale a quello dell’amore come il sesso, il «ragazzo con la spina nel fianco», diventato tristemente famoso per la sua estraniazione alle vicende della carne, non si è mai tirato indietro (emblematica a questo proposito la splendida Stretch Out And Wait, invito all’abbandono erotico e all’irresponsabilità dei sensi). Nonostante, però, gli indizi evanescenti che ha disseminato sulla sua sessualità, suscitando nella stampa una curiosità morbosa, quest’uomo descritto come castro o frustrato, bisessuale o eterosessuale, ha proclamato l’inutilità degli stereotipi che tendono a incasellare l’individuo in una categoria specifica, sostenendo che “la gente è solo sessuale, il prefisso è irrilevante”.
Oggi Morrissey, a dispetto di coloro che si attendevano il tracollo dopo la defezione del fidato Marr e lo scioglimento prematuro degli Smiths, continua a lavorare come artista solista, artefice di una carriera intensa e appagante. Con uno sguardo sul mondo che si è fatto più vasto e un desiderio di lasciarsi alle spalle l’amata/odiata terra natia, Moz continua a essere sulla cresta dell’onda. Le date dei suoi tour, noti per i divieti di introdurre cibi a base di carne all’interno dei locali in cui si esibisce, registrano ovunque il sold out. Nemmeno l’avvento della malattia – un cancro che l’ha costretto a sottoporsi a diversi interventi chirurgici – sembra aver scalfito il suo spirito combattivo: “Se devo morire, morirò. Altrimenti resterò vivo” ha dichiarato in un’intervista, aggiungendo con la consueta ironia: “Mi rendo conto che in alcune interviste recenti non ho un bell’aspetto, ma queste sono le conseguenze della malattia. Non voglio stare a preoccuparmene: mi riposerò quando sarò morto”. La stella di Morrissey continua a brillare nel firmamento del rock, illuminando le vite di coloro i quali hanno trovato, grazie al suo esempio, il coraggio di accettare le proprie debolezze. Come recita un grande successo degli Smiths, there is a light that never goes out.
Valerio Ferrara