Far poesia #2. Premessa: discutere la poesia con la poesia

Abbiamo individuato in un flusso creatore indefinibile il principio primo dell’espressione umana. L’abbiamo chiamato ‘atto creativo’. Creare ed essere vuol dire lo stesso, è il punto di vista che cambia. Ma prima di andare avanti con il nostro discorso è necessario un piccolo vademecum, che altro non vuol essere da un semplice orientamento epistemologico, ispiratomi da una ben più celebre dichiarazione di questo tipo, l’Introduzione alla Fenomenologia dello Spirito di Hegel.

Una divertente fase della storia dell’epistemologia: Galileo mostra il telescopio al Senato di Venezia.

Andiamo direttamente al punto. Quello che in questa sede vado dimostrando non è quanto gli attuali strumenti della critica letteraria siano inutili obsoleti tecnicismi che avevano un loro senso solo negli anni Sessanta. Che Roman Jackobson, Gianfranco Contini, Walter Benjamin, Cesare Segre, invece di essere contestualizzati nella temperie culturale post-bellica e studiati come neo-positivisti, siano assurti ad auctores insindacabili, è ovvio a qualunque spirito minimamente critico. E sarà un discorso che affronteremo esaustivamente nella prossima puntata, “Sull’originalità, ovvero la disumanità delle scienze umane”, che sarà, insieme alle successive, il completamento del discorso che andiamo ad avviare in questa sede. Cosa vogliamo, dunque, qui dimostrare? Che la critica letteraria è bella quanto un manuale di anatomia umana rispetto a Venere, ed è utile quanto lo stesso manuale per chi voglia fare un figlio. Sia essa comparazione o ricostruzione filologica, quando diviene l’oggetto principale dello studio letterario, è la principale nemica di chi fa poesia. Perché? Diciamo innanzitutto che applicando su una poesia uno strumento di comprensione ad essa esterno ed estraneo come la riflessione concettualmente organica e non poetica, si finisce innanzitutto per fare un’analisi che riguarda, più dell’oggetto della riflessione, lo strumento stesso. In secondo luogo, quanto più si conosce dell’oggetto, tanto più vuol dire che si è perfezionato lo strumento, che quindi rischia, col proprio essersi perfezionato e complicato ed esteso, di coprire il senso stesso dell’oggetto. Pensiamo a Petrarca. I Rerum Vulgarium Fragmenta sono un’opera di datazione impossibile: conoscere il lavoro di Petrarca vuol dire sapere che non c’è un solo componimento del canzoniere su cui l’autore non sia ritornato, in tarda età, almeno una volta. Possiamo affermare, dunque, che la lirica petrarchesca non ha alcun interesse a mostrare un reale percorso di vita, cronologicamente inquadrabile, bensì sia un fittissimo mosaico in cui i vari tasselli sono legati da rimandi dotti, filosofici, morali, pedagogici. Se Petrarca avesse voluto raccontare la propria vita interiore, come ancora oggi l’università c’insegna, associando i RVF al Secretum, considerandoli quasi un hobby petrarchesco rispetto alle opere in latino, certo non avrebbe parlato della morte di Laura in almeno dieci stili diversi, sperimentando diverse combinazioni di suoni, diverse chiavi allegoriche. Non avrebbe selezionato esattamente 365 poesie più proemio, non avrebbe operato quel lavoro massacrante di cesello. Eppure gli studiosi si sono affannati a datare ogni singolo componimento, sono sbucati riferimenti alla realtà contemporanea ovunque ce ne fosse la minima motivazione, si è data a Laura una casa, una famiglia, talora una faccia, addirittura. Per non parlare dell’etichetta continiana, l’ “unilinguismo”, che tanto toglie alla tormentatissima lingua di Petrarca. Ma non solo. Proviamo a leggere, da soli, prescindendo dall’apparato critico, una qualunque opera studiata a scuola. Ecco che già al secondo rigo ci sentiamo idioti, ignoranti, corriamo a rifugiarci nella prefazione e nelle note, e il perché lo sappiamo. Nessuno ci ha insegnato come si legge una poesia. Ci hanno trasmesso la convinzione che tutto quello che c’è da sapere su quel testo sia su altri testi, scritti da altri che hanno ricercato e capito per noi.
E così, ci ritroviamo un’Italia contemporanea di eccellenti saggisti e pessimi poeti; la linguistica strutturalista ha cercato di ridurre la poesia a “funzione” astrattiva riconducibile a leggi matematiche; chiunque voglia, oggi, approcciarsi ad uno studio serio della poesia preferisce studiare un saggio blasonato piuttosto che leggere criticamente le Rime di Dante o i Canti di Leopardi.

L’iconografia sulla morte di Petrarca rende l’idea dell’estenuante lavoro di revisione che egli faceva su ogni singolo componimento.

La prima critica che, in una conversazione, mi si pone è la mancanza di originalità del mio punto di vista. Certo che è già stato detto, non c’è cosa al mondo che non sia già stata detta o fatta milioni e milioni di volte; ma, caro, ti sei mai domandato perché consideri l’originalità un presupposto così importante per il valore scientifico di una tesi? La prima domanda che bisogna farsi è questa: da quando, nella storia del pensiero occidentale, l’ “originale” – divenuto sinonimo di “nuovo, non ancora scoperto” – è assurto a condizione necessaria e sufficiente della validità di qualunque scoperta o affermazione? In concomitanza con quale ‘riorientamento gestaltico’? Cominciate a rispondere da voi, io lo farò nella prossima puntata.

La seconda critica, postami solitamente dai docenti universitari, è più che altro una dichiarazione d’intenti: e che, l’università adesso deve formare i poeti? Ma no, ma no, non preoccupatevi, cari prof, in particolare quelli che, laureatisi in pieno ossequio al sistema, dato al sistema il proprio contributo in sogni e sangue, sono poi affetti dalla c.d. “crisi marxista di mezza età”, un male incurabile e, ahimé, diffuso soprattutto tra i grigi meandri di Lettere e filosofia; gli stessi che si nutrono dei loro convegni, che utilizzano Marx come un torchio con cui spremere i romanzi di formazione, per stare poi lì tutti soddisfatti ad ammirare le poche gocce di lotta di classe ricavate. Non datevi pensiero, non considerate il problema, sessantottini miei: avete fatto già troppo. È inutile che vi dica che la vostra università abbia formato poeti più che ottimi.
Io ritengo che non solo l’università, ma la società stessa abbia il compito di formare e preservare i poeti (e chi ha letto la prima puntata sa che non intendo dei semplici scippa-fogli); sono convinto inoltre che la didattica della letteratura, in qualunque lingua, vada rifondata. Ma questo sarà il contenuto della quarta puntata.

Per concludere quest’intervento, che purtroppo è incompleto e per ragioni di spazio e per l’imperfezione congenita a qualunque proposta epistemologica, voglio dire che l’essenziale è discutere la poesia con la poesia. Se è vero che solo il musicista comprende a fondo i meccanismi della composizione melodica e armonica, che solo chi ha costruito un mobile ti sa dire se una cucina è di qualità, solo colui a cui è stato insegnato un uomo che conosce i principi base del ritmo e della melodia (avendoli ascoltati e praticati, non letti da Beltrami), chi è stato reso padrone della propria lingua anche sul piano retorico (per averne una minima idea cominciate col leggere Lausberg, Elementi di retorica, edito da Il Mulino), chi ha letto e studiato un componimento non per avvalorare tesi altrui e nemmeno per crearsene di proprie, ma al fine di crearsi un bagaglio operativo per una propria attività creativa. Di qualunque tipo.
Non è questa una dichiarazione programmatica rivolta a docenti e addetti ai lavori, non è una proposta vera e propria, poiché io sono ancora soltanto al secondo passo della mia riflessione, che certo dovrà crescere, maturare e quindi delinearsi ma anche cambiare, mentre loro sono a un punto di non ritorno per cui non cambieranno mai.

Chanchanito

Grado Zero è una rivista culturale online, nata dall’incontro di menti giovani. Si occupa di cultura e contemporaneità, con particolare attenzione al mondo della letteratura e del cinema.

One Response

  1. Buongiorno,
    in questa bella domenica estiva vorrei sottoporre all’autore alcuni dubbi sul presente articolo.

    • «Che Roman Jackobson, Gianfranco Contini, Walter Benjamin, Cesare Segre, invece di essere contestualizzati nella temperie culturale post-bellica e studiati come neo-positivisti, siano assurti ad auctores insindacabili, è ovvio a qualunque spirito minimamente critico». In realtà mi sembra che i nomi citati nel secondo capoverso, Contini in primis, siano tutt’altro che “auctores insindacabili”. Contini soprattutto, al di là di una patina di idolatria che i filologi conservano per creanza, è soggetto a ripetuti attacchi volti a dimostrarne l’inconsistenza di alcune formulazioni (si pensi solo a quanto la critica recente si sia scagliata contro la sua lettura della “linea carsica dell’espressionismo italiano”). Attacchi francamente eccessivi, in rapporto alla bontà delle teorie. L’unilinguismo continiano citato poche righe dopo, per esempio, non toglie nulla alla “tormentatissima lingua di Petrarca”, ne dà solo un’oggettiva descrizione: in Petrarca, mi corregga se sbaglio, non c’è il “cul fatto trombetta” di Dante. Non è che Contini ha detto “Petrarca ha un vocabolario poetico molto più rarefatto, quindi è un caprone”, ha semplicemente notato una differenza linguistica che difficilmente si può contestare.

    • «Sia essa comparazione o ricostruzione filologica, quando diviene l’oggetto principale dello studio letterario, [la critica] è la principale nemica di chi fa poesia». L’integrazione è mia, ma mi rimetto a una spiegazione dell’autore, perché devo aver frainteso. Quand’è che la critica sarebbe “oggetto principale dello studio letterario”, se si sta parlando di poesia? La critica letteraria È lo studio letterario. Rileggendo, trovo dopo un ulteriore chiarimento. Ma continuo a non essere d’accordo: “Mimesis”, che è per uno dei più bei libri di critica letteraria (e non solo; ma ne parliamo dopo) mai scritti, fornisce spiegazioni essenziali sulla lingua e il contesto degli autor ivi trattati, proponendo anche collegamenti e “comparazioni”, appunto. Forse che questo studio meticoloso fa perdere di vista che il fine ultimo deve essere la lettura, con sua piena fruizione, del Don Quijote o di Papà Goriot? Ovviamente no. Certo, può anche darsi un critico che costipi il testo studiato dietro una macchinazione astrusa. Ma la capacità critica del lettore servirà pure a qualcosa: motivo per cui non si leggono le analisi campate in aria di Julius Evola (giacché ormai il fatto che fosse più a destra dei nazisti sembra non costituire più un problema per nessuno), ma si continua giustamente a leggere lo studio di Benjamin su Baudelaire.

    • «In secondo luogo, quanto più si conosce dell’oggetto, tanto più vuol dire che si è perfezionato lo strumento, che quindi rischia, col proprio essersi perfezionato e complicato ed esteso, di coprire il senso stesso dell’oggetto». A parità ontologica, non mi sembra che aver scoperto i diversi modi con cui accendere il fuoco abbia fatto perdere di vista il riscaldamento o la cottura della carne (il senso-del fuoco).

    • «E così, ci ritroviamo un’Italia contemporanea di eccellenti saggisti e pessimi poeti». Vorrei mi si spiegasse questa frase, perché è piuttosto facile dare addosso alle macrocategorie senza che si facciano chiarimenti distinzioni; a Napoli si dice “facit’ e nomm’!”. Mi ricorda un po’ certa critica (argh!) che quando non ha niente da scrivere parla della “situazione disastrosa della critica in Italia”: di chi stiamo parlando? Eccellenti saggisti chi sarebbero? Pessimi poeti chi sarebbero? Frasca, De Angelis (che pure non amo), Arminio, Lello Voce, la Cavalli, Enrico Testa, Antonella Anedda, Magrelli, sarebbero pessima poesia?

    • «la linguistica strutturalista ha cercato di ridurre la poesia a “funzione” astrattiva riconducibile a leggi matematiche; chiunque voglia, oggi, approcciarsi ad uno studio serio della poesia preferisce studiare un saggio blasonato piuttosto che leggere criticamente le Rime di Dante o i Canti di Leopardi». D’accordissimo sulla critica allo strutturalismo; è, del resto, la stessa critica che facevano i marxisti. Ma non mi è chiaro cosa significhi, relativamente a Dante e Leopardi, “leggere criticamente”, di fronte a questo generale attacco alla pratica critica.

    • «La seconda critica, postami solitamente dai docenti universitari, è più che altro una dichiarazione d’intenti: e che, l’università adesso deve formare i poeti? Ma no, ma no, non preoccupatevi, cari prof, in particolare quelli che, laureatisi in pieno ossequio al sistema, dato al sistema il proprio contributo in sogni e sangue, sono poi affetti dalla c.d. “crisi marxista di mezza età”, un male incurabile e, ahimé, diffuso soprattutto tra i grigi meandri di Lettere e filosofia; gli stessi che si nutrono dei loro convegni, che utilizzano Marx come un torchio con cui spremere i romanzi di formazione, per stare poi lì tutti soddisfatti ad ammirare le poche gocce di lotta di classe ricavate. Non datevi pensiero, non considerate il problema, sessantottini miei: avete fatto già troppo. È inutile che vi dica che la vostra università abbia formato poeti più che ottimi.» Questa parte qui, onestamente, mi è incomprensibile. Non so che dipartimenti frequenti l’autore, ma oggi la critica marxista (almeno quella che marxista lo è davvero; non basta parlare di “classi” per essere marxisti, a meno che non si pensi, come i giornalisti europei, che basti essere “di sinistra” per essere etichettati “economisti marxisti”, come accaduto al povero Varoufakis) è ai minimi storici, almeno in Italia. è piuttosto facile attaccare il nemico quando è già caduto da cavallo; si renda almeno l’onore delle armi alla critica marxista, che avrà pure fatto un sacco di errori, ma almeno era una critica con una prospettiva e che dava una prospettiva all’attività letteraria. Dopo, però, leggo che «È inutile che vi dica che la vostra università abbia formato poeti più che ottimi». Ma in Italia non c’era solo pessima poesia?

    • «l’essenziale è discutere la poesia con la poesia. Se è vero che solo il musicista comprende a fondo i meccanismi della composizione melodica e armonica, che solo chi ha costruito un mobile ti sa dire se una cucina è di qualità, solo colui a cui è stato insegnato un uomo che conosce i principi base del ritmo e della melodia (avendoli ascoltati e praticati, non letti da Beltrami), chi è stato reso padrone della propria lingua anche sul piano retorico (per averne una minima idea cominciate col leggere Lausberg, Elementi di retorica, edito da Il Mulino), chi ha letto e studiato un componimento non per avvalorare tesi altrui e nemmeno per crearsene di proprie, ma al fine di crearsi un bagaglio operativo per una propria attività creativa. Di qualunque tipo». Premettendo che per comprendere i meccanismi della composizione melodica e armonica non c’è bisogno di essere un musicista, ma semplicemente una persona che abbia avuto a che fare con lo studio della musica (sono due cose diverse: suonare il piano perché si è studiato composizione non significa fare il musicista, così come saper eventualmente formulare endecasillabi, settenari, strambotti o zagialesche perché si è studiato poesia non significa fare il poeta), anche qui, non mi sono chiari alcuni punti: il grande problema della poesia in Italia è anzi esattamente quello qui paventato. Già Berardinelli notava che “il pubblico della poesia”, ormai, sono i poeti stessi. Il che, contrariamente all’Arcadia sognata da chi vuole comunità di poeti, genera solo favoritismi, complimenti vicendevoli, “bella la tua poesia, leggi la mia!”, pacche sulle spalle, e nessun dibattito su cosa sia la poesia. L’attività critica è necessaria, non fosse altro per compiere delle distinzioni Risponde a visioni personali? Certo. Rischia di essere settaria? Non più del poeta che, dall’alto del suo bagaglio di competenze e della sua personale poetica (che ha sempre, che gli piaccia o no), decide chi secondo lui è un suo collega e chi no. Si tratta di un lavoro difficile da fare bene? Beh, la pagnotta ce la si dovrà pur guadagnare…
    Ma soprattutto, vorrei un chiarimento su questa presunta autonomia del “crearsi un bagaglio operativo per una propria attività creativa”. Sarò io vecchia scuola, ma è impensabile “fare attività creativa” di qualsiasi tipo se non si ha una tesi da avvalorare. Verrebbe poi da chiedersi perché mai solo la poesia dovrebbe essere qualificata come “attività creativa”, lì dove uno studio filologico serio può anche essere esteticamente piacevole; “Mimesis” di Auerbach non è solo un libro geniale, è anche un testo capace di emozionare, molto più, onestamente della poesia di Metastasio – e non si han dubbi sul fatto che Metastasio fosse uno che ascoltasse e praticasse i ritmi al di là del Beltrami!

    Ringrazio sin da ora l’autore Chanchanito e chiunque volesse risolvere i miei dubbi per la pazienza.

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